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«Lei non sa cos’è la coscienza… Una specie di trippa urlante»

«Lei non sa cos’è la coscienza… Una specie di trippa urlante»

Ricordi di classici francesi In presa diretta, la storia di una relazione tra due poeti: discorsi, dialoghi, aforismi degli ultimi anni di Artaud trascritti da Jacques Prevel

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 20 dicembre 2015

«Con Artaud la vita è così intensa, così totale», annota Jacques Prevel nel suo diario il 27 aprile del 1947. «Non c’è più nulla, solo un paese di pietre e vento, delle rocce dalle forme barbariche e un cielo irreale. Una calcinazione assoluta del tempo». Non si potrebbe dire meglio in così poche parole. Possiamo pensare agli esseri eccezionali come a dei paesaggi, e alla loro intimità come all’esplorazione di una terra sconosciuta, un viaggio iniziatico. Non a caso, Prevel parla di Artaud in termini molto simili a quelli che Artaud impiega per descrivere il paesaggio messicano attraversato a cavallo in cerca dei Tarahumara e dei segreti del peyotl. Come a dire: ci sono individui vasti come il Messico, e l’unicità è la vera misura della grandezza. Così erano Poe e Nerval, così era Van Gogh.

Da molti punti di vista, Artaud è stata l’ultima incarnazione dell’eroe romantico, una leggenda ambulante, un crocevia di dolori e visioni rivelatrici. Quanto a Jacques Prevel, non è certo il meno interessante tra tutti i testimoni degli ultimi anni dell’autore di Succubi e supplizi. Normanno di origine, povero in canna, bigamo, amico di Adamov e Camus, incarna alla perfezione lo stile di esistenza del «poeta maledetto». Morto di tubercolosi nel 1951, si lasciò dietro tre raccolte di versi ma non riuscì mai a portare a termine il libro che voleva scrivere sull’incontro decisivo della sua vita. Restano le note preziosissime del suo diario, pubblicate per la prima volta nel 1974 con il titolo In compagnia di Antonin Artaud (Giometti & Antonello, pp.165, euro 18,00). Quanto al suo valore di documento, diciamo subito che questo diario è inestimabile, sia perché contiene lettere ed altri scritti di Artaud meticolosamente ricopiati, sia perché Prevel trascrive come meglio può discorsi, dialoghi, aforismi fulminanti. Ma va subito aggiunto che nulla è più distante da Artaud dal concetto di «conversazione». Anche seduto a un tavolino del Flore o dei Deux-Magots, circondato da una folla di amici e ammiratori, Artaud è capace di ritirarsi in una lontananza inespugnabile, e tutto ciò che dice sembra arrivare all’improvviso, affermandosi come un oracolo, scoraggiando ogni tentativo di risposta.

Cosa si può ribattere a rivelazioni come questa? «…deve sapere che l’uomo morto sul Golgota sono io e, vede, vengo vampirizzato dall’umanità intera. Quattro miliardi di bocche umane a succhiare il mio sperma. Può perciò ben comprendere come sia nemico di qualsiasi sessualità». Quando è possibile riportare un dialogo vero e proprio, si tratta di scambi degni di un’antologia del teatro dell’assurdo («Cosa sta leggendo, signor Prevel ?» «Una stagione all’inferno» «Di chi ?» «Di Rimbaud» «Ah»).

Dopo qualche scambio di lettere, il primo incontro fra Artaud e Prevel avviene il 27 maggio del 1946, al Café de Flore. Due giorni prima Artaud è arrivato a Parigi dopo nove anni di manicomio. Per una singolarissima coincidenza, nelle stesse ore, sbarcato a Le Havre, è tornato in città anche Breton dall’America. Nonostante la generosità e la sincera ammirazione di Breton, tra i due non tarderanno molto a ripresentarsi i soliti problemi di carattere e le solite incomprensioni. Ma per poco meno di due anni (morirà il 4 marzo del 1948) la presenza di Artaud a Parigi si afferma con l’evidenza di un fenomeno naturale. Ovviamente, si tratta della sconvolgente impressione suscitata dai testi della stagione terminale, già cominciati a Rodez o composti dopo la liberazione, da Succubi e supplizi a Per farla finita con il giudizio di dio, passando per lo stupendo saggio su Van Gogh, il suicidato della società. Ma quella di Artaud non è solo un’opera intesa come una successione di testi scritti, è anche un’avventura oltre i limiti dell’umano, la riemersione da un mondo di oscurità e silenzio che ha in sé qualcosa di mitico, come di un Orfeo che si è calato negli Inferi per riportare alla luce del sole una materia così incandescente da ustionare (Breton lo capì benissimo) chiunque ne venisse in contatto.

Jacques Prevel non è il solo a pendere dalla bocca sdentata di questo veggente sempre impegnato a difendersi da innumerevoli nemici, rispondendo colpo su colpo ai sortilegi dei suoi innumerevoli nemici («Non voglio inorridirla, ma guardi le mie mutande. Vede, ci sono milioni di esseri a succhiare il mio sperma. Io li attacco col mio soffio. Quando lancio il mio soffio, non è casualmente, ma contro degli esseri ben determinati che succhiano il mio sperma perché lo trovano buono. Restano fulminati e cadono come mosche»).

La paranoia, d’altra parte, che in Artaud giunge ai limiti dell’immaginazione cosmica e del sistema filosofico, non è l’unica legna gettata ad ardere in questo rogo finale. Anche la dipendenza dall’oppio e dagli oppiacei, col suo eterno pendolo di soddisfazioni ed astinenze, gioca un ruolo che nessuno potrebbe ingenuamente relegare alla sfera delle circostanze esterne all’opera, dei particolari biografici. Semmai, la necessità e la poesia contribuiscono in modo solidale a definire il ritratto di colui che forse è stato l’uomo più totale fra gli artisti della sua epoca. Di questo aspetto della vita di Artaud, Prevel è probabilmente il più informato di tutti gli altri testimoni degli ultimi anni.
Giorno dopo giorno, in un traffico praticamente ininterrotto di boccette di laudano, Prevel conosce l’uomo che più ammira al mondo dal particolare punto di vista della dipendenza. Ne ricava qualche centinaio di franchi per sopravvivere, ma è l’ultima cosa che lo interessa, nonostante il fatto che a un certo punto arrivi anche un bambino e che nessuna delle sue donne appaia in grado di guadagnarsi la vita, attratte pure loro entrambe nell’orbita di Artaud. Ma proprio in virtù di questa delicata situazione, il diario di Prevel è la testimonianza di un singolarissimo legame umano.

Iniziando a leggerlo, può capitare di imputare ad Artaud una mancanza di disinteresse nello stringere un legame così profondo e quotidiano con qual giovane poeta sempre inguaiato e dall’aria malata. Se non avesse avuto un tale bisogno di laudano, avrebbe concesso a Prevel un punto di osservazione così privilegiato, una tale confidenza? Pur esprimendogli anche alcune riserve, Artaud apprezza davvero, come dichiara spesso, la scrittura del suo giovane amico? Quale tossico non farebbe i complimenti alle poesie del suo pusher? Ma basta inoltarsi nel libro perché tutti questi pensieri meschini si dissolvano. Prevel era un uomo intelligente, e il suo idealismo non gli offuscava la conoscenza della vita. Ci racconta la storia di una relazione che è bellissima e autentica proprio perché il bisogno e l’amicizia, l’interesse e il disinteresse convivono rafforzandosi a vicenda.

Nemmeno un’ombra di disprezzo o di giudizio incrina mai la purezza dello sguardo di Prevel. Ne sarebbe sicuramente venuto fuori un libro memorabile, se l’autore avesse avuto il tempo di scriverlo, ma queste pagine in presa diretta sono già qualcosa di compiuto, che non lasciano troppo rimpiangere ciò che non sono diventate. Non c’è nulla che l’allievo, nella sua volontaria sottomissione, non rispetti nel maestro. E se lo trova che dorme, come accade tantissime volte, anche dal suo sonno trovava il modo di imparare qualcosa. Prima o poi si sarebbe svegliato, e senza nemmeno riconoscerlo gli avrebbe sussurrato o urlato parole inesauribili, viatici per la vita e per la morte da annotare subito e non dimenticare mai. «I venti, tutti i venti della coscienza. Lei non sa cos’è la coscienza. Una specie di merda. Una specie di trippa urlante».

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