L’Egitto delle rose e delle spine
Interviste Un incontro con lo scrittore 'Ala al-Aswani, all'indomani dell'uccisione della poetessa Shaimaa El-Sabbagh, negli scontri di piazza Tahrir
Interviste Un incontro con lo scrittore 'Ala al-Aswani, all'indomani dell'uccisione della poetessa Shaimaa El-Sabbagh, negli scontri di piazza Tahrir
Ala al-Aswani, autore di romanzi come Chicago, Palazzo Yacoubian, ora nelle librerie italiane con Cairo Automobile Club, non si sottrae a una analisi politica degli scontri avvenuti durante il quarto anniversario delle rivolte del 2011, che hanno causato la morte della rivoluzionaria operaia e poetessa egiziana, Shaimaa el-Sabbagh. La giovane che portava una rosa in piazza Tahrir è stata ricordata in piazza Talaat Harb, il luogo dove è stata uccisa dalla polizia. In tutta Europa, artisti e intellettuali si sono mobilitati in sua memoria, ripetendo lo scioccante abbraccio di suo marito mentre tentava di soccorrerla. Anche il noto editorialista egiziano Ahmed el-Sayed el-Naggar dalle colonne del giornale filo-governativo Al-Ahram, in un raro articolo critico verso il regime dal titolo «Il sogno a rischio tra stato e rivoluzione», ha puntato il dito contro i metodi arbitrari della polizia egiziana.
Può aiutarci a definire la personalità di Shaimaa El-Sabbagh? Cosa ha significato la sua morte per il movimento egiziano?
Shaimaa el-Sabbagh rappresentava la gioventù rivoluzionaria, costituita in maggioranza da donne. Proveniva dalla piccola borghesia di Alessandria d’Egitto, una delle città che possiamo annoverare fra le più attive durante la rivoluzione. Con il suo gesto di portare una rosa in piazza Tahrir ha voluto dire che la rivoluzione continua. Si è recata lì con suo marito e il figlio: il suo dramma, quindi, rappresenta il nostro dramma. È stata una donna assolutamente coraggiosa che è andata in piazza Tahrir, il posto più significativo delle rivolte, solo per alzare un fiore.
Dall’altra parte, ha trovato la brutalità della polizia. Perché un generale, armato fino ai denti, avrebbe ucciso una donna disarmata come Shaimaa? Ha esorcizzato la sua audacia, togliendola di mezzo. Ho conosciuto i suoi versi. Era tra i poeti della rivoluzione, come Omar Hazek: anche lui ha sfidato la polizia, pagando con due anni in prigione.
Con il ritorno prepotente del vecchio regime, parteciperà alle prossime elezioni di marzo?
Sono contrario alla legge elettorale, voluta dalle autorità: il nuovo parlamento non rappresenterà la rivoluzione, riporterà solo indietro gli uomini di Mubarak. Non parteciperò al voto di marzo: non è solo la mia posizione, ma quella di tutte le forze rivoluzionarie.
Il suo ultimo libro «Cairo Automobile Club» (Feltrinelli, pp. 488, euro 19) è attraversato dalla lotta per la libertà dall’occupazione inglese… Quanto i personaggi di Saliha e Kamel si possono avvicinare ai rivoluzionari di piazza Tahrir?
Saliha e Kamel sono una metafora degli obiettivi non raggiunti dalla rivoluzione. Gli egiziani hanno combattuto per la libertà. Al tempo di Nasser, questo concetto aveva un senso sociale, non politico. Significava educare i bambini perché avessero un buon lavoro e non perché parlassero apertamente. Per tale motivo, poiché ancora non abbiamo conquistato la libertà politica, l’obiettivo della rivoluzione resta incompiuto. I due personaggi di Saliha e Kamel incarnano questo concetto. Saliha è impegnat a emancipare se stessa dalla tradizione e a ottenere i diritti che le spettano. Kamel è il giovane che desidera cambiare il suo paese: per me, sono personaggi che hanno vissuto fino alla rivoluzione del 25 gennaio 2011, avrei potuto incontrarli in piazza Tahrir.
Eppure, nel suo romanzo, molti egiziani vengono descritti come vittime di un profondo servilismo, assoggettati alle volontà dei loro datori di lavoro: il Kao, il capo del personale che sa distribuire magistralmente le sue punizioni e prevenire le sedizioni, è forse il personaggio più riuscito che lei abbia creato…
Traggo ispirazione dal realismo della vita quotidiana. Il Kao raffigura il dittatore, l’uomo malvagio che controlla tutto. Siccome non è sufficiente, provo a descrivere l’altro volto del tiranno: corrotto, ma anche padre che protegge. È un atteggiamento che spiega molte cose rispetto la nostra quotidianità: dopo la fine di ogni totalitarismo c’è sempre chi auspica un ritorno al passato. È successo anche con Mubarak, numerosi egiziani vorrebbero che tornasse. Kao, dunque, è il padre protettore. Vivere con un despota va contro la natura umana. Quando accade, riesci ad adattarti, subendo però una deformazione psicologica. Cerco di spiegare tutto questo con l’attitudine dei servi. Alcuni di loro si ribellano al sistema, ma la maggioranza non è pronta per la libertà. Essere trattati come animali viene così accettato, si preferisce avere cibo, soldi: questa è la peggiore deformazione che possa capitare durante una dittatura.
Tra gli elementi più originali del suo libro, troviamo senz’altro l’approccio al sesso, in particolare l’attitudine delle donne egiziane, come dimostra il personaggio di Fakiya.
Esistono molti stereotipi sulla società egiziana. Per esempio, si pensa che non si parli mai di sesso nel nostro paese. È vero il contrario: ne parliamo troppo. Nella loro vita domestica, le donne cercano di controllare gli uomini. Questo succede quando non sono trattate come esseri umani, ma vengono immaginate come meri oggetti sessuali. Loro tentano di difendersi attraverso la sfera erotica. Se la donna non è libera, trova la sua importanza nel sesso. Un individuo libero agirebbe diversamente.
E poi c’è Shamel: come può un principe, sangue dello stesso sangue del monarca, guidare la sedizione anti-Farouk?
Alcune volte la coscienza va al di là dell’abito sociale. Molti leader del partito comunista egiziano provenivano da famiglie ricche. Shamel si basa su un personaggio reale: il cugino del re Farouk, Abbas Halim, che aveva studiato alla Sorbona. Era un amico di mio padre che era un socialista. Abbas ha sempre cercato di aiutare la classe operaia. Era vicino ai sindacati dei lavoratori, ma per le sue attività politiche ha passato una settimana in prigione. Nonostante fosse suo cugino, il re permise il suo arresto.
In questo romanzo, lei coglie a pieno la duplice lettura delle relazioni tra egiziani e stranieri: una opportunistica (le vecchie signore con Mahmud) o il modo odioso in cui Wright tratta il personale egiziano; l’altra di estatica ammirazione, l’amore incantato tra Mitzie – che scopre il vero Egitto nella povera casa del servo illuminato a Sayeda Zeinab – e Kamel…Gli stranieri non sono tutti uguali. Wright è un razzista, sua figlia Mitzie è una persona magnifica, aperta alla cultura egiziana. Mahmud è un gigolò, forte ma non intelligente: uno strumento sessuale per le donne straniere ed egiziane. Quindi ci sono buoni e cattivi stranieri, tutte le critiche mi riconoscono che mi sono liberato dagli stereotipi: d’altra parte, anche gli stranieri sono esseri umani…
Il cuore del suo racconto è però in Umm Sayd: è la scelta di questa donna di sfidare il sistema più della morte del marito a cambiare per sempre il destino dei personaggi?
Umm Sayd rappresenta la cultura del Sud: qui le persone sono povere ma sanno combattere. È parte di me, mio padre viene dall’Alto Egitto, mia madre da Alessandria. Umm Sayd combatte per la sua dignità, per i suoi figli, diventa più forte con la morte del marito. È un personaggio impressionante che racchiude la qualità delle donne di tutto il mondo.
È proprio nella relazione tra uomini e donne che, forse, il suo libro incappa in alcuni stereotipi. Cosa ne pensa?
Nelle relazioni tra uomini e donne ho voluto presentare i personaggi nel loro realismo. Sono sempre interessato alle relazioni fisiche, che diventano vere espressioni dei personaggi. Il sesso non è solo la sfera del piacere, ma ha in sé molte altre ragioni. È così che cerchiamo di scoprire i nostri partner e ripristinare la nostra dignità, questa è una delle cose che voglio esplorare. Il marito di Saliha è un uomo che ha comprato una macchina sessuale ma non l’ha usata. È un modo terribile di vedere la donna. Fakiya controlla invece il marito in tutto e per tutto, ma lo fa per il bene suo e della sua famiglia.
La macchina, inventata dai Benz in Germania, è dunque il simbolo del capitalismo occidentale che ha rovinato l’Egitto?
Sì, l’arrivo dell’automobile in Egitto ha «impersonato» l’influenza esterna sul paese. La sua invenzione è una bella storia, ma poi è diventata uno strumento capitalista per controllare il mercato: una invenzione interessante che si trasforma in un’industria. Succede ancora adesso. Abbiamo lottato contro l’occupazione britannica ma, una volta liberi, siamo stati occupati da dittatori interni che hanno usato il paese per quarant’anni.
In fin dei conti, l’unico vero rivoluzionario all’interno del suo «Automobile Club» è Abdun, che prepara materialmente la rivolta contro il monarca…
Abdun incarna la gioventù rivoluzionaria in Egitto. Una nuova generazione: il 60% degli egiziani ha meno di trent’anni e non vuole accettare gli stessi compromessi dei loro genitori. Ognuno cerca una strada per la dignità e non vuole più essere esclusivamente un servo: come Abdun.
ABBONAMENTI
Passa dalla parte del torto.
Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento