Leggere Platone per salvarci dalle storie che ci dividono
Saggistica letteraria Lo storytelling non è solo un cemento delle relazioni sociali ma anche la causa della loro distruzione. Jonathan Gottschall «completa» L’istinto di narrare con: Il lato oscuro delle cose, per Bollati Boringhieri
Già Platone, in uno dei dialoghi sulla Repubblica, aveva messo in guardia dai rischi dell’arte, e più in generale della mimesi in quanto «potenza divina», forza irrazionale e pericolosa per l’ordinamento costituito e per l’ordine politico, nonché fantasia della mente, realtà non reale che al filosofo, emblema degli uomini che mirano a liberarsi dal giogo delle ombre della caverna, non poteva non apparire un rischio mortale: una bugia intesa come realtà.
Perché mai dunque dovremmo fidarci di qualcuno che racconta una storia? La risposta, suggerisce lo studioso e accademico statunitense, Jonathan Gottschall, è che non possiamo evitare di farlo. L’autore è già noto al pubblico italiano per il libro L’istinto di narrare: come le storie ci hanno reso umani (Bollati Boringhieri, 2014), in cui la narrazione viene considerata come una delle azioni precipue dell’essere umano, giacché raccontare (e, di conseguenza, ascoltare) è ciò che ci unisce gli uni agli altri, e dunque al mondo. Le esperienze letterarie ci consentono di mettere in soffitta pregiudizi e illusioni, e perché no sviluppare capacità adattive o regolare le nostre risposte più elementari alla vita quotidiana. Insomma, scrive l’autore, «la finzione, espressa con qualunque mezzo narrativo, è un’antica e potente tecnologia di realtà virtuale che simula i grandi dilemmi della vita umana».
Era, questo, un libro forse troppo ottimista, tutto speso nella descrizione del potere ammaliante, empatico e benefico delle storie. E dunque come necessario pendant, esce ora, sempre per i tipi di Bollati Boringhieri, il suo ultimo lavoro, a distanza di quasi un decennio. Con Il lato oscuro delle storie Come lo storytelling cementa le società e talvolta le distrugge (pp. 261, euro 24,00) Gottschall parte dal presupposto secondo il quale le storie soddisfano la nostra più intima esigenza di comunicare, con l’indubbio vantaggio di averci reso la specie che, con maggiore abilità, coopera con i propri simili. Non più homo sapiens, quindi, ma fictus – cioè finzionale, personaggio di una storia.
Molto del nostro tempo lo trascorriamo raccontando storie, ascoltandole o vedendole scorrere sullo schermo dei nostri smartphone, mentre siamo distesi sul divano di casa. Così ci influenziamo vicendevolmente, in modo efficace e potente, mentre siamo persuasi del contrario, che trattandosi, cioè, di storie, la loro forza sia innocua, incapace di plasmare e di incidere sulle nostre menti. Ecco, il cavallo di Troia che buca gli alti torrioni del corpo e penetra nel nostro sistema immunitario, promuovendo caos, distorsione, paura, disordine, barriere.
La storia è cemento che rafforza i legami comunitari, ci rende di istinto personaggi in un plot variegato e composito, e insieme però può essere scintilla di distruzione, disgregazione della comunità, manipolazione del prossimo, insomma minaccia (atomica, oggi più che mai) del pensiero razionale. Dietro ogni guerra, ogni crisi, ogni forma di distruzione, c’è sempre una grande narrazione. E con la spigliata andatura del saggista di livello, Gottschall insiste sulla tragica storia del popolo ebraico, che assurge a esemplificazione estrema di quella potenza distorsiva che le storie hanno: «Alla radio, nei giornali, nei cinegiornali, nei discorsi e persino mediante campagne di voci circolanti orchestrate ad hoc (Mundpropaganda), i propagandisti nazisti sembravano raccontare molte storie, ma in realtà ne stavano raccontando soltanto una: una storia di cavalieri ariani che combattono il male ebraico nell’ultima, definitiva battaglia di resistenza dell’umanità. Era una narrazione così semplice e potente, così eccitante per le masse, che trasformò una pura invenzione in realtà».
Da questa prospettiva, le storie somigliano a degli strumenti mentali, molto simili a quelli naturali (si pensi alle mani), la cui moralità non è intrinseca all’oggetto ma al suo stesso uso, come un martello non è di per sé uno strumento con cui uccidere un altro essere umano. E così una storia il cui intento primario consiste nel condizionare le persone che ci circondano, ha scopi più o meno immediati, più o meno ampi. È l’ossigeno, «principio velenoso dell’umanità», scrive Gottschall, in quanto motore primo dell’esistenza, eppure responsabile di tutti quei processi di invecchiamento del corpo umano e dei suoi tessuti. Quando l’universo narrativo è in continua espansione investendo quasi tutti i campi dell’esperienza umana, economia, scuola, salute, legge ecc., allora emerge il lato oscuro delle storie.
Ma come possiamo salvare il mondo dalle storie? Dovremmo forse ricorrere a qualche improbabile misologia, sorella minore di una più generale misantropia, come ci dissuade dal fare lo stesso Platone nei confronti di quei discorsi che sono falsi e ingannevoli? No di certo!
Nell’ultimo capitolo del suo libro, intitolato Una chiamata all’avventura, lo studioso americano ci spinge a seguire i moniti proprio di Platone, e a sviluppare regole di condotta per navigare in quelle storie che ci dividono, gli uni dagli altri, secondo quella sempre più marcata contrapposizione che dai social, e segnatamente Facebook, emerge come un rigurgito di intransigente moralismo. Sto parlando del fenomeno, da tempo noto ai sociologi, delle ‘eco chambers’: le cosiddette camere di risonanza (o dell’eco), nelle quali la comunicazione delle informazioni è a senso unico. Le stesse considerazioni sono postate, in una bolla social, da molti utenti, così da restringere la visuale e indurre infine a un radicale scontro ideologico con chi la pensa in modo diverso: le vaccinazioni, la guerra, il covid sono o sono stati argomenti controversi che, polarizzati e schematizzati, distorcono il campo della realtà e la sua perversa e polimorfa complessità. Con questo monito, che sembra guardare lontano, Gottschall si congeda: «Odiate e contrastate le storie. Ma cercate di non odiare chi le racconta. E, per il bene della pace e di voi stessi, non disprezzate il povero fesso che non ha potuto fare a meno di cascarci».
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