L’evento: un nuovo capitolo della saga
di Federico Ercole

Non un gioco ma tantissimi, uno dentro l’altro come le matriosche, oppure dietro, sopra o sotto, i giochi nel gioco del gioco che compongono Legend of Zelda Tears of the Kingdom per Nintendo Switch. Questa compresenza – la successione e sovrapposizione perpetua di cose giocose diverse – non compone una chimera assemblata in maniera matematica e grottesca dalla «mente» ancora ottusa di un’intelligenza artificiale «ispirata» da pigre e onnivore velleità artistiche ma una creatura polimorfica magnifica in una inconcepibile e finora persino impossibile interezza, una totalità variegata definita nella sua unicità proprio dall’insieme delle sue diversità ludiche e dalle possibilità che queste offrono.

Il nuovo Legend of Zelda è un immenso lavoro corale dove non ci sono spazio e tempo (di gioco) che non esprimano il pensiero artistico e la volontà estrosa di centinaia di esseri umani che operano insieme in quella che sembra essere un’armonia amorosa più che laboriosa. Forse non è stato così, forse è solo una sognante idealizzazione di un videogioco inteso o che si lascia intendere come perfetto e quindi lo si vorrebbe perfetto davvero, ma ogni avventuroso o contemplativo minuto di questo capolavoro dei videogame sembra rivelare passioni e sentimenti bellissimi maturati e realizzati in più di cinque anni di sviluppo senza escludere dal pensiero creativo e programmatico coloro che alla fine interagiranno con l’opera compiuta in maniera mai passiva e sempre creativa, i giocatori. Perché Legend of Zelda Tears of the Kingdom, seguito ancora più radicale del già presunto insuperabile Breath of the Wild, è una materia viva che reagisce ed esiste solo in funzione della fantasia e della volontà di chi lo esperisce, accogliendolo nell’oceano delle sue probabilità. Anche qui c’è un calcolo e ci sono dei limiti, tuttavia non se ne sono mai visti così pochi, dando all’esperienza del singolo la meravigliosa illusione di una soggettiva esclusività.

Ci vorrebbe l’alto ingegno di un poeta, un’effimera e narcisistica invocazione alle muse, per descrivere il ritorno nelle molteplici ma sempre utili vesti fantasy di Link in una Hyrule già vista seppure mutata non solo dal Male ma dal tempo, dalla natura e dal popolo, questa volta ampliata da regioni celesti e sotterranee. Succede sempre qualcosa andando alla deriva per queste lande e capita anche quando parrebbe non accadere niente, quando sostiamo al riparo nell’attesa che cessi un temporale di tuoni e fulmini, quando mischiamo funghi, verdure e carni per cucinare un piatto dalle particolari peculiarità nutritive, quando trascorriamo per le strade di un villaggio nell’urgenza dell’avventura e siamo invece coinvolti nella sua vita, quando miriamo l’albero solitario sulla remota vetta di un monte. Non si tratta sempre di accadimenti ludici ma di pensieri e considerazioni personali, il tempo dilatato e dilatabile di Legend of Zelda Tears of the Kingdom consente meditazioni, alimenta corrispondenze con la vita del singolo, pensieri poetici, persino economici: perché quanto è difficile guadagnarsi le «rupie» per comprare le risorse? Ci sono anche l’azione, lo scontro con i nemici di varia complessità, ma le battaglie sono raramente obbligatorie, si può decidere se affrontarle, quando e come, non turbano l’esplorazione e non risultano meccaniche e quasi mai imposte.

La nuova facoltà di Link, ovvero costruire una varietà impressionante di oggetti, mezzi mobili e strutture favorisce la rottura delle regole del gioco, una favolosa sfida continua con se stessi e la propria fantasia perché non c’è mai un’unica soluzione per gli enigmi o per sconfiggere gli avversari ma innumerevoli e sta a noi idearne di semplici o astruse, di immediate o apparentemente impossibili. La «fisica» del gioco, come ad esempio le leggi della gravità, è sempre realistica come in Breath of the Wild e quindi sfruttabile per le proprie intuizioni, per assecondare l’estro anche quando funziona da barriera.

Le storie sono tante e raccontate in modi non convenzionali e lirici per interagire con la trama principale e la narrazione soggettiva del giocatore, con la sua volontà di connetterle, elaborarle ed espanderle con i pensieri propri e la propria esperienza, una narrativa alimentata inoltre dai suoni e dalla musica, dalla natura e dall’innaturale, componendo un romanzo epico, intimista, comico e tragico dove nulla è insignificante, soprattutto noi.
Non correte seguendo le missioni principali, edificate la vostra epopea tanto prima o poi queste vi capiteranno e le vivrete in tutta la loro sconvolgente grandezza ludica ed emozionale, fermatevi ad osservare le natura, ricordate il passato, aiutate e ascoltate le «persone» che vi scalderanno il cuore dopo ore di solitudine avventurosa, costruite e sperimentate nell’illusione di un gioco infinito, perdetevi e ritrovatevi per decine di ore sebbene sia inevitabile che quest’avventura prima o poi giunga al termine e allora nessun videogioco passato, contemporaneo e futuro, anche se formidabile, non sarà più lo stesso. Legend of Zelda Tears of the Kingdom è così luminoso da offuscare tutto il resto del panorama videoludico almeno per qualche tempo, finché non sarà solo più uno straordinaria memoria; converrà obliarlo per amare giochi venturi?

Risulta facile convincersi che quest’ultima leggenda di Zelda sia il+ videogioco più grande, ispirato e riuscito mai creato, il vertice verso cui tutta l’arte videoludica ha teso durante la sua storia. Un’idea forse erronea, anche vergognosa per il suo assolutismo, così forse potremmo affermare che Tears of the Kingdom è il migliore videogame di sempre nel suo genere avventuroso e nell’edificazione di un mondo aperto ed esplorabile con libertà. Se non fosse che questo videogame va così oltre ogni genere come motore di emozioni e gioco connessi in maniera inscindibile da non avere più nessun genere, da sfuggire ad ogni categoria se non quella imprecisabile delle cose grandissime.

 

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Planare con la paravela in tutte le direzioni

di Matteo Lupetti

Mi chiedo se The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom sarà ininfluente quanto lo è stato l’episodio precedente di questa serie Nintendo, Breath of the Wild del 2017. È una domanda provocatoria, ma vuole evidenziare non tanto un difetto di questi recenti The Legend of Zelda quanto una certa inerzia nell’abbracciarne veramente l’approccio da parte del resto dell’industria. Mi pare che in effetti l’unica importante influenza che Breath of the Wild ha avuto sia stata la diffusione della «paravela», uno strumento che permette al personaggio principale di planare nell’aria. Breath of the Wild non è stato il primo videogioco a permettere di planare, anzi non è stato neanche il primo episodio di The Legend of Zelda ad avere una simile meccanica. C’era per esempio già in Wind Waker del 2002. Ma è stato proprio Breath of the Wild a mostrare come questo modo di muoversi potesse funzionare in un contesto «open world», con mondo aperto esplorabile liberamente. Dopo hanno adottato simili meccaniche giochi piccoli e grandi come A Short Hike, Genshin Impact, Monster Hunter: World e Wavetale. Ma nessuna di queste opere ha ripreso quello che è il vero elemento centrale di Breath of the Wild, e cioè l’applicazione dell’approccio open world all’intera esperienza di gioco: open world in Breath of the Wild non vuol dire solo esplorazione libera dello spazio virtuale, ma anche esplorazione libera del suo spazio di possibilità, di cosa sia possibile fare con gli strumenti che il gioco ci fornisce e con la loro interazione con ambienti e personaggi. Come possiamo arrivare in una certa zona da qualsiasi direzione ed esplorarla in qualsiasi ordine, così possiamo approcciare da qualsiasi direzione un puzzle o un ostacolo, e il videogioco ci lascia superarlo anche in modi «sbagliati», non previsti.

A differenza di molti altri videogiochi, insomma, Breath of the Wild non pretende da noi l’esecuzione di una serie di ordini, punendo i nostri errori o la nostra mancanza di disciplina. All’epoca, l’uscita quasi contemporanea di Breath of the Wild e Horizon Zero Dawn di Sony Interactive Entertainment sembrava evidenziare il contrasto tra il nuovo modo di pensare l’open world di The Legend of Zelda (nuovo, ma certo ricco di precedenti) e un vecchio open world da cui certo Breath of the Wild stesso aveva imparato molto ma che ormai pareva bloccato in una certa ripetizione. Dopo sei anni abbiamo un nuovo The Legend of Zelda e un nuovo Horizon (il seguito di Zero Dawn, Horizon Forbidden West, è uscito l’anno scorso), e il principale effetto che Breath of the Wild ha avuto su questa serie di Sony è stato, anche in questo caso, far implementare una versione della sua paravela. Sable di Shedworks e Raw Fury è un altro dei videogiochi che ha ripreso da Breath of the Wild la meccanica del planare, su cui anzi Sable costruisce una parte rilevante sia della sua esperienza sia della sua narrativa. Ma Sable, insieme a Elden Ring di FromSoftware e Bandai Namco Entertainment, è forse uno dei pochi videogiochi che hanno cercato di cogliere e riproporre lo spirito di Breath of the Wild, lasciando alle persone la possibilità di costruirsi un viaggio unico e personale, con una conclusione ugualmente personale, nel loro mondo. Che sia proprio questo il vero cuore del nuovo corso di The Legend of Zelda mi sembra dimostrarlo come Nintendo si sia spinta ulteriormente in questa direzione con Tears of the Kingdom, tra l’altro implementando e sviluppando spunti suggeriti da anni di sperimentazioni dei giocatori di Breath of the Wild. Va detto che gli ostacoli di questi The Legend of Zelda sono comunque ragionati per essere superati: c’è almeno una risposta a ogni problema che incontriamo, anche se noi possiamo scoprire soluzioni alternative. Il passo successivo sarebbe creare (e accettare) videogiochi che possano presentare anche situazioni irrisolvibili, come in parte già fa Rain World di Videocult, anch’esso uscito nel 2017 ma di cui è stata finora poco colta la poetica sovversiva.