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Legacoop: “Il centro di Lampedusa è un lager e va chiuso”

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Immigrazione Tre commissari visitano la struttura nell'ambito dell'inchiesta interna che ha portato all'azzeramento dei vertici della cooperativa che gestiva il centro e che il Viminale adesso vorrebbe liquidare. Constatano le condizioni disumane in cui vivono migranti e operatori e si preparano a stilare un dossier da presentare al ministero degli Interni. "La colpa dei nostri uomini - dicono - è stato non denunciare per primi la vergogna e l'indecenza in cui dovevano lavorare"

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 5 gennaio 2014

Il centro di “accoglienza” di Lampedusa è un lager e va chiuso. Ormai lo sanno tutti e lo hanno detto tutti. Le immagini dei migranti nudi in fila all’aperto innaffiati col disinfettante antiscabbia hanno fatto il giro del mondo. Ieri lo hanno ripetuto anche i commissari inviati dalla Legacoop dopo l’azzeramento dei vertici della cooperativa Lampedusa Accoglienza che finora ha gestito il centro e che il Viminale ha deciso di liquidare. Ieri sera, dopo la visita sull’isola, si sono riuniti con il nuovo amministratore di Lampedusa Accoglienza, il professore Roberto Di Maria, per decidere le prossime mosse.
Legacoop non poteva non sapere cosa succedeva là dentro, ma neppure lo Stato può lavarsi la coscienza scaricando tutte le responsabilità sugli operatori che lavoravano in un contesto difficilissimo che certo non dipende da loro ma da una precisa e disumana politica dell’immigrazione. «Un centro da chiudere. Un centro che sembra un lager. Un centro accoglienza senza i requisiti minimi richiesti in un carcere», hanno detto al Corriere.it la responsabile di Legacoop Sociali in Sicilia Angela Maria Peruca, il direttore regionale di Legacoop Pietro Piro e il vicepresidente regionale Filippo Parrino che ieri hanno varcato i cancelli di Contrada Imbricola. Hanno incontrato la vice direttrice Paola Silvino, i medici e gli operatori, gli stessi apparsi nel video. All’interno sono rimasti 17 stranieri, ma per mesi sono stati centinaia, ammassati come topi, molti dei quali sopravvissuti al naufragio del 3 ottobre che causò 366 morti annegati. Dopo quella tragedia e le passerelle dei vertici delle istituzioni italiane ed europee tutti conoscevano perfettamente la situazione, ma nulla si è fatto. Fino alla messa in onda del famosofilmato e al gesto eclatante del deputato del Pd Khalid Chouki che ha deciso di passare il natale chiuso nel centro.
Adesso la struttura è quasi vuota, ma i segni di quello che è avvenuto dietro quei muri sono ancora evidenti. I commissari raccontano di aver visto baracche, materassi ammassati, camerate allagate, serrande divelte, docce e bagni rotti e arrugginiti, sporcizia ovunque, l’infermeria senza brandine né lavandino. «La grave responsabilità dei nostri uomini è di non avere alzato la voce denunciando per primi la vergogna e l’indecenza in cui operavano», dice Filippo Parino. E Pietro Piro aggiunge: “Il vero scandalo non è quel video, ma il silenzio che da mesi è calato sulle condizioni di vita di chi è stato accolto. E questo doveva essere chiaro ai potenti, alle autorità, a quanti hanno avuto libero accesso in una sorta di prigione dove nessuno poteva entrare senza autorizzazione”. Angela Maria Peruca spiega: «Dopo il video era necessario fare una operazione-verità. Abbiamo trovato giustificazioni perché il disastro dei locali, quel giorno affollati da 500 migranti, costringeva a praticare le docce all’aperto, ma c’erano 18 gradi, una parete di vecchi materassi come precaria privacy. La familiarità fra alcuni operatori e i migranti può essere stata male interpretata come arroganza. Non esiste invece alcuna giustificazione per lo sconcio di materassi sfatti e servizi peggio di un lager. E’ questo che dovevano vedere anche polizia e carabinieri, l’ufficiale sanitario, ministri e autorità che si presentavano per fittizie solidarietà mediatiche…».
I tre ricordano anche le tante richieste fatte al Viminale e mai ascoltate. La lettera di rescissione del contratto è arrivata l’altro ieri. Adesso che succederà? “Abbiamo tempo 30 giorni per valutare quali cambiamenti possiamo adottare e capire con il Viminale se c’è un margine per evitare la recessione del contratto – spiega al Manifesto il professore Di Maria – un eventuale contenzioso giuridico non rientra nel mio ruolo. Noi però possiamo cambiare ciò che è di nostra competenza, non certo il contesto con cui qualunque gestore deve fare i conti. Questo dipende dal ministero degli interni”.

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