Visioni

L’effetto Lavia fagocita Brecht

L’effetto Lavia fagocita Brecht

A teatro «Vita di Galileo» in una versione kolossal. Coralmente recitato più che intimamente interpretato, trova solo nel finale un tocco di crepuscolare dolore

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 14 novembre 2015

Forte del suo ruolo di consulente artistico del Teatro della Toscana, Gabriele Lavia si allea con Torino, altra pedina fondamentale del nuovo scacchiere teatrale italiano (i «magnifici sette» usciti dalla riforma del Mibact) e, come ama dire, «salda il conto con la sua vita terrena di teatrante». Aperto più di mezzo secolo fa a Milano quando ventenne ebbe la ventura di assistere a Vita di Galileo di Brecht, produceva il Piccolo, dirigeva Giorgio Strehler, troneggiava Tino Buazzelli. Sappiamo che per Brecht Galileo fu a lungo un rompicapo. Fra ritocchi, ripensamenti, rimaneggiamenti, ci lavorò per oltre vent’anni. Il rapporto fra scienza e potere mostrava le sue falle, mentre tumultuosa sui binari del Novecento scorreva la Nuova Storia che fissarne l’atomo fuggente diventava impossibile.

La prima versione del Galileo risale al 1938, durante l’esilio dello scrittore in Danimarca; una seconda nel 1947, debutta a Los Angeles con Joseph Losey e Charles Laughton; l’ultima nel 1955 firmata col Berliner Ensemble è quella che, seppur non ancora definitiva (Brecht sarebbe morto l’anno dopo) approdava appunto in via Rovello.
Se il drammaturgo di Augusta non faceva sconti sulla grandiosità dell’impianto, Gabriele Lavia accetta la sfida dei tempi che vorrebbero spettacoli snelli, e senza curarsi troppo dell’aspetto economico (ascrivibile a sette/ottocentomila euro) crea il suo «grand opéra», una amplificata macchina scenica di 26 attori che coprono tutti gli 80 personaggi del copione, più i 150, voluttuosi costumi di Andrea Viotti, le scene stilizzate ma vigorose di Alessandro Camera, le luci grigio perla di Michelangelo Vitullo, la partitura originale di Hanss Eisler eseguita in diretta dal trio della Scuola di musica di Fiesole.

Fedele a se stesso e al suo credo registico Lavia realizza un Galileo più tecnico che teorico, coralmente recitato più che intimamente interpretato, più effettistico che effettuale, generoso di energie e certezze drammatiche più che generatore di amletici dubbi. Che questo avvenga con un testo che proprio a questo «smarrimento» della verità tendeva, non suona strano. Ci dice semmai che, preso così alla lettera, l’apologo brechtiano denuncia la sua età, la fragilità a raccordarsi con le temperature e le contraddizioni del tempo presente. Di cosa dobbiamo parlare quando parliamo di sapere e conoscenza?

Alla fine, solitario eroe (vincitore? sconfitto?), smessi la palandrana e il cappelluccio di lana, e indossata la tunica rossa del penitente, Lavia/Galileo si congeda con un tocco, questo sì, di raffinato, crepuscolare dolore.

Come se le quattro ore e passa che l’avevano preceduto dovessero per forza sciogliersi in quel gesto e render conto di quella lontana epifania milanese. Al momento, dopo Torino e Firenze, non sono previste trasferte.

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