Visioni

L’«Effetto domino» del capitalismo globale

L’«Effetto domino» del capitalismo globaleUna scena del film – Massimo Calabria Matarweh

Al cinema In sala dopo la presentazione alla Mostra di Venezia, nella sezione Sconfini, il nuovo film di Alessandro Rossetto, il paesaggio del nord est italiano tra macerie e ambizioni di futuro

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 12 settembre 2019

Sembra che il domino sia stato inventato in Cina, poi esportato a Venezia da lì si sia poi diffuso nel resto dell’Europa. C’entra qualcosa la storia di questo antico gioco da tavolo conosciuto in più varianti col nuovo film di Alessandro Rossetto, in sala dopo la presentazione alla Mostra di Venezia nella sezione Sconfini, riferimento esplicito nel titolo a parte? Effetto domino, appunto, per dire di un movimento che determina il successivo – proprio come nel gioco – incastrando più o meno le diverse caselle. È quanto accade al protagonista Franco Rampazzo (ottimo Diego Ribon), muratore divenuto imprenditore edile come tanti altri là intorno, eroi del mantra di lavoro&soldi, soldi&lavoro, e che insieme al geometra Colombo (Mirko Artuso) – uno che vuole far nascere le cose dal niente – cerca di realizzare un progetto di grandi ambizioni: rilevare i vecchi hotel abbandonati della zona e trasformali in resort di lusso per anziani ricchi, «paradisi» dove vivere l’illusione di una possibile eternità. Le banche lo sostengono, i soci sono altri come lui, piccoli imprenditori di villette, auto e mogli ossigenate che festeggiano con ostriche e prosecco, figure opache di un nord est che corre verso la sconfitta. E poi? L’affare è milionario, la banca all’improvviso si ritira, ma dietro c’è un altro investitore anzi due, uno del posto più solido e «padrone« e uno cinese che manovra grandi capitali. Non soldi di «cose» ma finanza, accordi, transazioni, speculazioni. Il povero Rampazzo ne viene stritolato e insieme a lui a «effetto domino» finiscono male tutti quanti, dal fornitore di porte che si dà fuoco ai camionisti ai muratori moldavi uniti dalla speranza di diventare ricchi, e poi dalla rabbia di volere i soldi che gli spettano o almeno di non andare a fondo.

Rossetto – sua la sceneggiatura e di Caterina Serra – ha lavorato sul libro omonimo di Romolo Bugaro (Marsilio editore) per quella che comincia come una storia «locale» e si trasforma in una vicenda planetaria, una lente che cristallizza il funzionamento del capitalismo globale oggi in cui non valgono più i singoli, e i loro «giochetti» di mazzette, corruzioni piccole o grandi – coi funzionari del comune e quanti altri – quelle «mani» di soldi&lavoro concreto su cui si fonda l’orizzonte del protagonista. Ciò che regola il sistema è una finanza che annulla l’individuo, sono le banche che speculano nell’alleanza coi capitali certi mentre i destini, le vite delle persone sono al più danni collaterali facilmente risolvibili.

L’ECONOMIA è divenuta liquida, impalpabile come gli schermi al plasma su cui comunicano gli investitori – «tenere il cuore diritto» ripete il capo cinese al suo giovane apprendista. Non ci sono riferimenti, luoghi precisi, responsabili: il disegno è fluido, conta solo l’opportunismo nel posizionarsi, come coincidere e con che cosa, a chi agganciare la propria pedina attenti a non ancorarsi mai. Nessuna morale né pentimento, – «dio perdona quasi tutto»- in fondo è sempre una questione di soldi.

La scommessa è tradurre questa implacabile contemporaneità in cinema, Rossetto la vince in un lavoro corale – la complicità al montaggio di Jacopo Quadri, i meravigliosi attori, tra gli altri oltre ai già citati Ribon e Artuso, Maria Roveran, Marco Paolini, Lucia Mascino – e con lo sguardo di un regista che sa muoversi nel paesaggio o – lo avevamo già visto nel precedente Piccola patria (2013) – per trasformarlo in narrazione. Quel nord est di cui conosce in profondità il funzionamento, lui che è nato e vissuto a Padova si scontra col presente del mondo, un impatto che necessita riposizionamento: ma è proprio così? O invece questa scacchiera non è altro che lo specchio di qualcosa che è già lì, di un’avidità senza scrupoli che semplicemente si vende al vincente? Del resto: su cosa guadagnava il piccolo imprenditore se non sui corpi in disfatta altrui, su quegli anziani che non devono morire perché più campano più rendono? Ma immortale come la medusa che si rigenera e che diviene il simbolo di «New Old», la casa di riposo per miliardari, il nuovo vecchio mondo sembrano essere solo i denari.

È UN THRILLER del nostro tempo Effetto domino – in sala forse per poco ma cercatelo, non perdetelo, sostenetelo perché è un di quei begli esempi del nostro cinema che sfuggono a etichette e banalità – nel quale la continuità prende una forma quasi metafisica tra il «qui» della provincia veneta di cattolicesimo e dialetto che nella catastrofe cerca un nuovo sogno, e il presunto «altrove», stavolta Hong Kong di lusso e frenesia indistinta. Però non c’è cesura ma solo provvisoria affermazione di un modello sull’altro che sempre sarà instabile e precario, l’acquario di una realtà imperscrutabile tra simulacri di immortalità, un passato di macerie, un futuro che non esiste.

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