Non mi capiterà più di osservare il giallo acido e il grigio dei punti di impatto delle granate senza vedere anche i pallidi volti tremanti delle riserve, grigi e gialli di paura. Le loro mani impacciate e gli sguardi furtivi verso il campo che devono attraversare. La neve che si posa sui pezzi di carne innocente, che addolcisce i profondi crateri e avvolge allo stesso modo i corpi dei nemici e quelli del plotone dell’attacco precedente».
Scriveva così per Vogue nell’aprile del 1945 la fotoreporter americana in una delle sue «molte vite» che la vede trasformarsi in sismografo vivente della guerra, quando con l’Europa entrata in conflitto, lei – strappata la lettera dell’ambasciata Usa che le chiedeva di rientrare non potendola più proteggere – aveva deciso di gettarsi nella mischia della Storia, documentando l’orrore. Prima, aveva passato anni a sperimentare i linguaggi dell’avanguardia e a prestare il suo abbagliante corpo androgino alla moda e all’arte. «Ti imploro di credere che tutto ciò è vero», scriveva al suo editore, uscendo da quella fabbrica dell’annientamento umano che erano i campi di Dachau e Buchenwald. Aveva già testimoniato con la sua macchina fotografica la Liberazione di Parigi, la battaglia di Saint-Malo, gli ospedali da campo in Normandia, ma quell’ultimo capitolo scritto con inaudita spietatezza dal «gangster» (chiamava così Hitler, e anche Mussolini) la scosse profondamente, trascinandola in una depressione post-traumatica. Come atto catartico per una nuova rinascita, nei giorni tumultuosi della Liberazione, entrerà nell’appartamento di Monaco di Baviera del Führer e lì si farà ritrarre nella sua vasca da bagno dal fotografo e amico David E. Scherman, in uno degli scatti più iconici del Novecento.

Foto di David E. Scherman

Volto segnato, dimagrita, indurita nei lineamenti, non è più la stessa Lee Miller che frequentava la bohème parigina di artisti e poeti, quella che vediamo scherzare con Max Ernst e Leonora Carrington durante i picnic surrealisti in Cornovaglia, o che solarizzava i dettagli del suo corpo nello studio del mentore e amante Man Ray (dopo una relazione tumultuosa durata tre anni, densa di intuizioni artistiche e originali ricerche linguistiche, i due rimarranno amici fraterni). Eppure la poetica dello straniamento e degli oggetti parlanti (gli stivali inzaccherati dal fango inquadrati in primo piano) è ancora presente e provoca un potente détournement emotivo nello spettatore.
Nella primavera del 2023 sarà Kate Winslet a incarnare sugli schermi l’inquietudine esistenziale e intellettuale di Lee Miller nel film a lei dedicato. Lo farà seguendo il racconto del suo unico figlio Antony Penrose (nato da Roland, l’ultimo marito inglese). Scrittore, fotografo, scultore e cineasta, ha trasformato la casa d’infanzia, nell’East Sussex, in una residenza per artisti, la Farleys House and Gallery e dirige il Lee Miller Archives.

NELL’INTENSO LIBRO Le molte vite di Lee Miller (Contrasto, pp. 296, euro 21,90, traduzione di Valentina De Rossi con Maria Baiocchi), narra sua madre quasi riconoscendola per la prima volta, tra dolorosi momenti privati, come la violenza sessuale subìta da bambina, e l’avventurosa ascesa professionale – nel 1932, tornata a New York, aprì un suo studio quando non ne esistevano gestiti da donne–, corredando la pubblicazione con molte fotografie, anche inedite, frammenti di diario e brani di corrispondenza.

UN’IMPRESA TITANICA come avverte l’autore stesso, perché mettere mano a quella biografia è stato «come partecipare a un’elaborata caccia al tesoro escogitata da Lee in uno dei suoi momenti più beffardi». D’altronde, anni dopo la morte della madre, scomparsa nel 1977, sua moglie Suzanne ha scoperto in una soffitta più di sessantamila negativi messi via, in mezzo a documenti, riviste, lettere. E un po’ come è accaduto per Vivian Maier, è tornata alla luce un’altra Lee Miller.
Nella mostra appena inauguratasi a Venezia a Palazzo Franchetti Lee Miller – Man Ray. Fashion, love, war, curata da Victoria Noel-Johnson (visitabile fino al 10 aprile 2023, catalogo Skira), circa 140 fotografie, compresi oggetti d’arte come il metronomo di Man Ray e alcuni video, grazie all’adesione dei Lee Miller Archives e della Fondazione Marconi, indicano un itinerario immersivo a scatole cinesi, seguendo il dispiegarsi a ventaglio di una serie di capitoli fondamentali della storia artistica e visuale appartenuta al secolo scorso.

Solarised Portrait of Lee Miller, c.1929. Man Ray, © Man Ray TRust /Adagp, courtesy The Penrose Collection / Lee Miller Archives

 

LE PERSONALITÀ VULCANICHE di Lee Miller e Man Ray dominano l’immaginario: sono una fucina creativa inesauribile nel loro reciproco scambiarsi invenzioni, idee per lavori commerciali (i rayogrammi per la Compagnie parisienne de distribution d’electricité) ed esperimenti tecnici. Come quando sovraespose una pellicola perché un topo le era passato sul piede in camera oscura e lei, spaventata, aveva acceso la luce. Nel suo ricordo, fu quello l’incidente rivelatore che portò alla solarizzazione surrealista.
È modella, musa – esordì con suo padre Theodore da cui erediterà la passione per la fotografia che lui coltivava da amateur – e artista in prima persona. Intanto, è ritratta dal Picasso cubista e arruolata nel film di Jean Cocteau Le sang du poète. Il suo è un corpo del tutto onirico, una calamita luminosa per le traiettorie d’avanguardia tra America e Europa, da Parigi, al Cairo, fino a Londra. Miller aveva mosso i primi passi nella moda fin da quando, un giorno a New York, mentre attraversava la strada, un signore non la investì per un soffio: era il magnate della Condé Nast. Colpito dalla sua bellezza raffinata, le offrì di lavorare come modella per Vogue e nel 1927 Lee è già in copertina.

Dalla mostra veneziana «Lee Miller – Man Ray. Fashion, love, war» (foto Vincenzo Bruno)

MA LEI PREFERIVA «fare foto che essere una foto». Nell’esposizione veneziana, un’intera sala è dedicata al suo periodo egiziano. Prima di conoscere l’inglese Roland Penrose nel 1937 e dopo la rottura con Man Ray nel 1932, c’era stata per Miller la parentesi d’amore e matrimonio con il ricco l’uomo d’affari egiziano Aziz Eloui Bey, con tanto di trasferimento al Cairo. Le sue fotografie nel deserto sfumano nell’astrazione geometrica e optical. Le ondulazioni provocate dal vento sulla sabbia, il buco nelle zanzariere che inquadra un infinito (scatto di cui si innamorò Magritte) ricordano quei dettagli ingranditi di corpi e oggetti stralunati che fecero la storia del Surrealismo.