Cultura

L’educazione sospesa tra gusto e disgusto

L’educazione sospesa tra gusto e disgusto

SAGGI «Dopo la cena, allo stesso modo» di Gianfranco Marrone, per Torri del Vento

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 7 settembre 2019

La «gastromania» è passata di moda. Non si è fatto in tempo a definire la passione esplosa per la cucina che i riflettori si sono spenti. Cosa resta del fuoco?
In Dopo la cena, allo stesso modo. Dieci anni di immaginario gastronomico (Torri del Vento, euro 15) Gianfranco Marrone stila un bilancio della «sbornia» gastronomica dell’ultimo decennio, fra battaglie naturiste, Expo e ristoranti «stellati», chilometri zero, talent show e parchi a tema.

APPENA RISCOPERTO dopo la lunga «glaciazione industriale» che ha indotto ad amare surgelati, scatolette e latte in polvere, oggi il cibo è già mitologia di massa. I supermercati di quartiere traboccano di «biologico», ma il discorso sulla gastronomia non interessa più a nessuno.
Marrone raccoglie gli articoli pubblicati a mezzo stampa dal 2008 e tenta di ritrovare la verità della cucina, il suo valore politico oltre la chiacchiera mediatica. Cucinare non è una mansione essenziale per la sussistenza personale e familiare – prodotti industriali per tutte le esigenze soddisfano questo scopo – ma un «diletto», una pratica di educazione al gusto che si compie divertendosi e per procurare piacere. Impossibile scindere il cibo dalla convivialità, lo dice il più grande esperto di Fisiologia del gusto, Brillat-Savarin, che era insieme giurista e gastronomo.

Non mangiamo mai materie prime, ma i modi in cui esse sono trasformate e strutturate, cioè valorizzate, per dare gusto agli uomini. E dare gusto significa insegnare a scegliere, ad avere discernimento, a essere in grado di preferire ed escludere, dunque a provare disgusto e a sapersi indignare.
La gastronomia è l’arte dell’etica: migliora i comportamenti di chi cucina e di chi ne fruisce. Aiuta a inglobare l’alterità, dal compartir spagnolo indice di socialità profonda, la condivisione del cibo in uno stesso piatto o in tanti piattini che arrivano sul desco all’unisono, fino all’atto estremo del cannibalismo, esogamico – mangiare i nemici per assimilarne la potenza – ed endogamico – mangiare i parenti defunti per conservarne la memoria. Perché «il modo più semplice per identificare l’altro consiste nel mangiarlo» (Lévi-Strauss).

Con autentico stile semiotico Marrone parte da sprazzi di vita vissuta per indagarne i segni. Il libro è diviso in tre parti. La prima, Foodies, è su alcune espressioni di punta della gastronomia. C’è Fico, la «Fabbrica italiana contadina» di Bologna che ha neutralizzato l’opposizione tra il supermarket e l’orto del contadino. C’è Masterchef, dove però non ci si gode il cibo che si prepara e la cui fortuna è quindi inversamente proporzionale alla perdita di cultura culinaria. E non manca Autogrill, marchio di aree di ristorazione per viaggiatori che è oramai una «categoria dello spirito», sinonimo di spensieratezza al di là dei suoi confini fisici.
La seconda parte del libro, Chez moi, riunisce articoli sulla sicilianità attraverso la cucina: dal luogo epico del bancone del pesce – ci taliasse l’occhi! – agli involtini, dai visceri alla parmigiana. Marrone sottolinea che il «tipico» non è un passato aureo e intoccabile da verificare, ma un modello regolativo per creazioni future. Non c’è pietanza tipica che non arrivi da ibridazioni e traduzioni.

COSÌ LA PARMIGIANA ha varie etimologie – il parmigiano e dunque Parma, le sicule parmiciane (ossia le finestre a persiana) e l’arabo al-badingian’ – e due ingredienti principali, le melanzane e il pomodoro, provenienti rispettivamente dall’Asia e dall’America. La «tradizione» è sempre il frutto di un’invenzione riuscita. Gusti e disgusti, la terza parte del libro, presenta infine fotografie di alimenti d’ogni sorta, con effetti euforici e disforici – frutta, verdura, pesce, carni, dolci – in posti del mondo che l’autore ha visitato.
Due auspici si traggono da questi dieci anni di gastronomia: che la dietetica non si fondi sull’ideologia regressiva del naturalismo, sulla retorica del «senza», e possa organizzare piuttosto che eliminare, non vietare ma regolare. E che nelle mense delle scuole, di ogni ordine e grado, si pratichi il gusto. L’«educazione civica» è, prima che una materia teorica obbligatoria, un sapere veicolato da esempi di sapore.
«L’uomo è ciò che mangia. Se mangia bene, sarà un uomo migliore» (Feuerbach).

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