Nel bene e nel male, le notizie non mancano mai. Lasciando da parte quelle che occupano le prime pagine e che sono quasi sempre angosciose, anche nel (relativamente) piccolo campo dell’editoria c’è sempre qualcosa di nuovo da raccontare. Giorni fa, per esempio, The Bookseller ha pubblicato un articolo su un fenomeno che preoccupa molti editori del vecchio continente: «Il successo delle esportazioni britanniche di libri in lingua inglese in alcuni mercati europei cannibalizza le vendite di testi locali, riduce i ricavi delle traduzioni, danneggia i guadagni degli autori anglofoni». La tendenza riguarda soprattutto i paesi nordici, dove l’inglese è parlato e letto comunemente dalla maggioranza della popolazione, ma si sta estendendo in altri paesi, come la Germania, che nel 2022 ha registrato un + 22 % dell’export britannico in lingua originale.

Dell’Italia non si sa. È probabile che qui il fenomeno mantenga dimensioni modeste, ma mai dire mai, visto che a fare da traino sono i social, TikTok in testa. E se da un lato ci si rallegra per la migliore conoscenza di una lingua straniera, dall’altro l’allarme non manca, anche perché – nota Rachel Mills dell’omonima agenzia letteraria londinese, «c’è una sensazione spiacevolmente coloniale nell’idea che il nostro settore incoraggi tutti a leggere in inglese».

Se sugli sviluppi di questa tendenza possiamo esitare, è invece motivo di sano e raro buonumore una storia spagnola, raccontata da Ferran Bono su El País: a Libros (nomen omen), minuscola località aragonese, sono in arrivo oltre ventimila volumi, in risposta a un appello lanciato per aprire una biblioteca nel paesino, che conta poco più di cento abitanti. Il successo è tale che il sindaco, Raúl Arana, «circondato da migliaia di libri inscatolati e per ora conservati nel municipio» già pensa di aprire una biblioteca-albergo dove ospitare nuove donazioni, offrire residenze agli scrittori, organizzare laboratori letterari e chissà cos’altro.

Più che di notizie, però, l’editoria vive di libri – e se sono libri fuori dalle fabbriche dei bestseller, tanto meglio. Forse per questo, una novità accolta con grande attenzione dai media statunitensi in queste ultime settimane è Tremor di Teju Cole, il cui precedente romanzo, Open City (Città aperta, Einaudi, 2013), risale a più di dieci anni fa. E che Cole, nigeriano trapiantato negli Stati Uniti, non sia uno scrittore seriale, lo conferma la recensione di Julian Lucas sul New Yorker: «Tremor vuole illustrare il mondo interconnesso senza ricorrere alle convenzioni romanzesche della trama e del ritratto psicologico e muovendosi invece come un saggio, intrecciando spaccati di vita con riflessioni sui virtuosi della chitarra maliana, sui fenomeni astronomici, sui film di Bergman e Kiarostami. In questo vagare c’è però un metodo: Cole usa la risonanza tra i frammenti per avvertire una totalità poco percepita, come un sismologo che integra le misurazioni di diversi siti per mappare un terremoto».

E di simili mappe abbiamo oggi un gran bisogno. Può esserlo, in tutt’altro territorio, un libro uscito ora in Spagna: Las hijas horribles, saggio corale della giornalista Blanca Lacasa Carralón, che affronta un tema doloroso e vero, la relazione spesso difficilissima tra figlie e madri, cercando di decostruire – come spiega in un’intervista a María Fernanda Ampuero su El País – «l’identità deificata della figura materna». Oppure La résistance des bijoux di Ariella Aïsha Azoulay, che, a partire dalla propria famiglia, si interroga sulla distruzione metodica del secolare intreccio tra mondo ebraico, arabo e berbero – una lunga «ferita coloniale», come la definisce Sonia Dayan-Herzbrun su En attendant Nadeau. Da leggere, soprattutto in questi giorni.