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L’edificio perbenista che Dickens fece vacillare

L’edificio perbenista che Dickens fece vacillareJohn Everett Millais, «The Old Garden», 1888

Chesterton «L’età vittoriana nella letteratura» di G.K. Chesterton, uscito nel 1913, è l’eccellente introduzione a un passato prossimo già storico, con spunti personali. Da Adelphi

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 26 febbraio 2017

Vittoria regnò dal 1837 al 1901 e sotto di lei fiorirono romanzieri, poeti, intellettuali che ancora affollano persino le librerie delle stazioni ferroviarie (Hardy, Stevenson, Brontë…). In casa, eredità di vecchie istitutrici, avremo forse i bei volumi dei poeti Tennyson Browning Swinburne Rossetti. E poi le pietre veneziane e le mattine fiorentine di un Ruskin. Ma qui andiamo sul difficile. A ricordarci questo grande mondo antico provvede L’età vittoriana nella letteratura del colossale G.K. Chesterton, ottimamente tradotto da Paolo Dilonardo (Adelphi, pp. 211, € 14,00). È un saggio molto personale anche se strutturato didascalicamente in quattro parti: «Il compromesso vittoriano e i suoi nemici» (dove i nemici sono anche alcuni dei maggiori esponenti, da Ruskin ad Arnold), «I grandi romanzieri», «I grandi poeti» e «La rottura del compromesso» (l’estetismo di Wilde, il socialismo di Shaw, l’imperialismo di Kipling). Ma appunto Chesterton, giornalista e autore di cento libri, «vittoriano» nella sua infaticabilità appassionata, non ci racconta cosa una George Eliot o un Meredith abbiano scritto, li dà per letti e familiari, fornisce un inquadramento e (secondo il suo solito) una sfilza di epigrammi che però colgono il segno.
Il libro è del 1913, come se oggi uno scrittore italiano nato negli anni settanta (Chesterton era del 1874) raccontasse il nostro «compromesso» del dopoguerra e poi Vittorini Pavese Morante Moravia Calvino, persino Eco, cioè eventi di un passato prossimo ma già per lui storico. Da ciò la familiarità della trattazione che però non si sofferma su idiosincrasie personali a scapito del quadro d’insieme. Certo, Chesterton era un simpatizzante del cattolicesimo (si convertì nel 1922) e qua e là emerge il suo moralismo (a proposito di passeggiatrici nonché omosessuali), ma il suo tradizionalismo paradossale non inficia la capacità di disegnare un quadro e di comporre un saggio che, anche per chi non ricordi gran che di Lytton e Kingsley, è un piacere scorrere per le qualità di scrittura nonché per le proposte di lettura della modernità, del rapporto Inghilterra-Europa, del contributo dei grandi intuitivi che come Dickens fanno vacillare inconsapevolmente e fantasticamente l’intero edificio del compromesso perbenista e occhiuto della società vittoriana ma non solo.
Quello di Dickens è «l’assalto più semplice e istintivo, e di conseguenza probabilmente più pesante, sferrato a quell’appagamento che era al centro dell’età vittoriana». Quanto ai suoi personaggi caricaturali, spesso contrapposti a quelli realistici di Thackeray, «lo speciale e splendido compito di Dickens fu quello di presentarci persone che sarebbero state del tutto incredibili se egli non ci avesse raccontato tante verità sul loro conto». Leggiamo dunque Il nostro comune amico e La bottega dell’antiquario, stimolati da affermazioni come «Se, per compassione nei confronti di Mrs Quilp, definite Dickens il difensore delle donne oppresse, d’un tratto vi ricorderete di Mr Wilfer, e vi scoprirete incapaci di negare l’esistenza di uomini oppressi…».
Chesterton è forse meno sensibile alle qualità stilistiche di uno scrittore di quanto non saremmo oggi (anche se ha acute osservazioni sulla scrittura di James e Stevenson, ma ancora più acute su Jekyll/Hyde). Tuttavia il quadro complessivo da lui disegnato nel 1913 rimane sostanzialmente attendibile. Sicché L’età vittoriana nella letteratura resta un’introduzione eccellente che va molto al di là di un’introduzione e offre spunti di interpretazione e riflessione.
Si veda la conclusione, che piacerebbe a un teorico della decrescita: «I vittoriani pensarono che il commercio estero avrebbe esteso la pace: non c’è dubbio che spesso abbia esteso la guerra. Pensarono che il commercio interno avrebbe certamente promosso la prosperità; in larga misura ha promosso la povertà. Ma per loro questi furono esperimenti; per noi dovrebbero essere insegnamenti. Se continueremo anche noi, come i capitalisti, a servirci del popolo, se continueremo anche noi, come i capitalisti, a servirci delle armi al di fuori del nostro Paese, ciò graverà pesantemente sui vivi. E non sarà sui morti che ricadrà il disonore».

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