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L’Eden è radioattivo

L’Eden è radioattivo

Mostre Julian Charrière alla Berlinische Galerie con «As we used to float». Storia e catastrofe dell'atollo Bikini e dintorni

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 24 novembre 2018

Fin dalla maledetta estate del 1946 in cui i test atomici dell’operazione Crossroads trasformarono il paradisiaco atollo di Bikini in uno dei luoghi più contaminati della Terra, le detonazioni non sparsero solo cenere e pulviscolo radioattivi in quel remoto angolo del pianeta, ma inondarono anche il resto del mondo con una marea d’immagini, catturate con più della metà della pellicola disponibile nell’immediato dopoguerra.
Con parte di quell’immenso archivio, nel 1976, Bruce Conner realizzò Crossroads, film in cui per trentasette minuti si succedono al rallentatore sequenze di esplosioni filmate dall’esercito statunitense e ritrovate dal regista presso il National Archive di Washington. La mostra As we used to float dell’elvetico Julian Charrière, aperta fino all’8 aprile alla Berlinische Galerie, si compone di video, installazioni e foto dedicate a quello stesso atollo per porci ancora una volta di fronte al cortocircuito tra reale e immaginario, tra l’orrore e la bellezza di immagini che sono diventate particelle integranti dell’atmosfera culturale in cui galleggiamo (da cui il titolo della mostra).

Charrière, però, non si occupa delle esplosioni nucleari bensì di ciò che ne rimane oggi e filma quei luoghi compiendo un’operazione in parte rovesciata rispetto a Conner. Nel lavoro del regista statunitense, infatti, la consistenza pastosa dei funghi atomici, i baluginii degli scoppi, l’incresparsi delle onde, assumono con il ralenti una qualità ipnotica che l’iterazione e la colonna sonora di Terri Riley non fanno che accentuare, trasformando la macchina di morte in un’esperienza estetica quasi rilassante.
Nel video Iroojrilik che apre la mostra dell’artista svizzero, invece, la violenza è il senso ottuso di rappresentazioni in apparenza idilliache. Il tramonto tinge di rosa una spiaggia deserta, acque cristalline accarezzano il bagnasciuga di sabbia finissima, la foresta è fitta di fronde e palmizi, poi si scende sottacqua e ci troviamo di fronte al fascino delle profondità. Sembra un paradiso ma è un inferno, è il globo terracqueo dopo la catastrofe nucleare.

E, in effetti, le strane costruzioni in cemento che di tanto in tanto occhieggiano sulla superficie terrestre non sono semplici bunker, vestigia di una guerra che si allontana nella memoria, come sulle coste della Normandia. Sono i simulacri dei luoghi da cui partivano le operazioni che, in nome del progresso, settant’anni fa hanno colonizzato e avvelenato un pezzo di pianeta tuttora inospitale, deportando e distruggendo le vite di chi lo abitava.
Per di più, quelle architetture erano legate all’attività di documentazione filmica prevista dalla missione, perché proteggevano gli operatori dalle radiazioni e dagli effetti delle esplosioni servendo anche da luoghi di stoccaggio del materiale fotografico e di ripresa.

Nell’oceano, la macchina da presa mostra il mistero di un cosmo opaco, attraversato da squali. Se non sapessimo che quel grande spazio profondo è Castle Bravo, il più grande cratere antropogenico al mondo scavato nel 1954 da uno dei testi termonucleari più atroci, ci sarebbe da ammirare la meraviglia del creato. Di tanto in tanto, compare un relitto: cattedrali di rottami depositatisi a più di sessanta metri di profondità, carichi di biomasse spugnose o in forma di rami sottili che ondeggiano nella corrente.
Sui resti della portaerei Saratoga, delle corazzate Nagato e Arkansas la vita ha preso il sopravvento ma, anche se non si vede, è tutta velenosa. Cavità, corridoi, depressioni, varchi neri: progressivamente, le profondità oceaniche assumono lineamenti metafisici, diventano il cuore di tenebra della nostra civiltà. Nel nero sembrano aggirarsi i fantasmi, come ne La spiaggia terminale di Ballard, racconto che ha ispirato Charrière, il cui protagonista si aggira per le spiagge dell’atollo radioattivo di Eniwetok (non lontano da Bikini) alla ricerca degli spiriti dei morti.

Charrière ha filmato personalmente queste sequenze dopo un addestramento tecnico molto arduo di cui, con Nadim Samman, ha scritto nel libro As we used to float (Verlag, 2018), che costituisce un’estensione dell’esposizione. Il tempo è una dimensione peculiare del lavoro di Charrière. Del video Iroojrilik colpisce la durata brevissima delle inquadrature che, solo leggendo il materiale informativo, si scopre corrispondere al tempo di permanenza massima concessa in un luogo per evitare il rischio di contaminazione. Nel libro, spiega l’ossessione per il tempo del subacqueo la cui sopravvivenza è legata a quanto dettato dal manometro. Ma anche il funzionamento delle radiazioni induce a una riflessione sulla temporalità.

Nel catalogo della mostra, il curatore Guido Fassbender parla delle radiazioni chiamando in causa il concetto di «iperoggetto», ideato da Timothy Morton per indicare fenomeni le cui ripercussioni si espandono ben oltre la durata della vita di chi li ha creati. I cocchi di Bikini sono ancora radioattivi, proprio come quelli dell’installazione Pacific Fiction, ragione per cui è stato necessario rivestirli con sarcofagi di piombo per renderli innocui ma non meno minacciosi dacché ora somigliano a palle di cannone.
Nella stessa sala dei cocchi, in un altro video intitolato come la mostra, il propulsore di una nave da guerra sommersa diviene un memento mori mentre l’installazione All We Ever Wanted Was Everything and Everywhere pone sui due bracci di un bilanciere una grande campana subacquea arrugginita come quella descritta per primo da Aristotele e sacchi di plastica trasparente pieni di acqua radioattiva sospesi sinistramente sulle teste dei visitatori.

L’esposizione è completata da Tewa, una fotografia sulla cui pellicola l’artista ha sparso sabbia radioattiva producendo una seconda esposizione, visibile sotto forma di riflessi, bagliori luminosi, nebulose di luce che quasi corrodono l’immagine del paesaggio. La mostra è organizzata in occasione dell’attribuzione a Julian Charrière del premio Gasag che ogni anno viene assegnato ad artisti che interrogano e si appropriano di metodi scientifici e processi tecnologici attraverso le pratiche artistiche.

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