L’ecologia politica di un disastro che non riguarda solo la memoria
Nel sessantesimo anniversario del disastro, esce La tragedia del Vajont dello storico dell’ambiente Marco Armiero (Einaudi). Un titolo semplice per un libro che si propone di sviscerare quell’intreccio complesso di […]
Nel sessantesimo anniversario del disastro, esce La tragedia del Vajont dello storico dell’ambiente Marco Armiero (Einaudi). Un titolo semplice per un libro che si propone di sviscerare quell’intreccio complesso di […]
Nel sessantesimo anniversario del disastro, esce La tragedia del Vajont dello storico dell’ambiente Marco Armiero (Einaudi). Un titolo semplice per un libro che si propone di sviscerare quell’intreccio complesso di fattori naturali, sociali, politici, economici che il 9 ottobre del 1963 ha travolto una valle, cancellato una città e spezzato la vita di duemila persone. Una tragedia consumatasi in pochi minuti, ma con alle spalle una storia lunga mezzo secolo, in cui si sono avvicendati una catena incredibile di azzardi ed errori, di sottovalutazioni e mancanze, di silenzi e sordità, di allarmi veri e rassicurazioni false.
UNA STORIA TRAGICA QUANTO il disastro, come lo è sempre quella porzione di storia di un paese, in questo caso l’Italia, che incede nella modernità anche a costo del sacrificio di vite innocenti, avvalendosi dell’ambiguo rapporto fra scienza e potere. Proprio quest’ultimo è uno dei temi chiave dell’analisi che si svolge nella cornice teorica dell’Ecologia politica, campo plurale di studi che esplora le relazioni fra società e ambiente.
«Non si capisce il Vajont senza connettere la geologia del Monte Toc e il potere economico e politico della Società adriatica di elettricità, la marginalità della montagna italiana e la subalternità dell’accademia al potere economico e politico, l’idraulica di un grande invaso e la meccanica dei sistemi di controllo dello Stato sulle grandi opere» scrive Marco Armiero, in quanto non si può ignorare la dimensione politica dentro cui avvengono le trasformazioni della Natura e le sue conseguenze.
COME NON SI PUÒ IGNORARE la gerarchia che sussiste all’interno dei saperi, che nel caso del Vajont ha contribuito a misconoscere del tutto le osservazioni e le memorie degli abitanti del territorio, i quali ben sapevano, anche per esperienza diretta, che il nome dato alla montagna che sovrastava la diga (Toc in dialetto locale significa «marcio») non era dato a caso. Un portato di saperi «di luogo» che restano subalterni ai saperi di fonte istituzionale, quando invece quella delicata e complessa attività che è la valutazione del rischio ha bisogno non solo dei saperi cosiddetti «esperti» ma anche della visione, delle informazioni, dell’esperienza, delle necessità di tutte le persone interessate. Non si tratta di legittimare superstizioni o paure ma di superare la rigida divisione dei saperi di stampo moderno ed affrontare le questioni post- moderne con il necessario approccio socio-ecologico.
LO SCONTRO FRA CONOSCENZE è un classico dei conflitti ambientali, come quelli innescati dalle grandi opere, la cui dimensione epistemologica è oscurata da quella politica. Il Vajont, scrive Armiero, non si può comprendere solo come un fallimento tecnico-scientifico; ci ricorda quanto è difficile decidere quale sapere è legittimo e quale no, e mostra come la legittimazione della scienza sia anche un prodotto di potere. La tragedia del Vajont è anche una narrazione che parla di narrazioni.
DA TINA MERLIN A MARCO Paolini, alle testimonianze dei sopravvissuti, Armiero esplicita il potere delle parole quando non vengono nascoste: come esse possano incidere nella memoria e cambiare la coscienza, riportare nella storia ciò che è rimasto fuori, a volte per caso, più spesso per scelta. La perdita di una narrazione a favore di un’altra o del silenzio è un’altra delle modalità con cui si articola l’ingiustizia sociale.
IL VAJONT È ANCHE UNA STORIA di resistenza, quella opposta prima e dopo da coloro i quali sono poi sono stati ingabbiati nel ruolo delle vittime. Interessante la riflessione che l’autore fa sul pericolo del paradigma vittimario, che rappresenta le comunità colpite dalle tragedie come prive di volontà, e per questo pacificate, le vittime «buone» come dice efficacemente una sopravvissuta, Carolina, che invece sente di appartenere alle vittime «cattive», quelle che «puntano il dito contro il sistema che privilegia i soldi alla vita umana».
QUELLO CHE È SUCCESSO sessant’anni fa è ancora purtroppo molto attuale. Un racconto meticoloso che alimenti una memoria ferrea sono gli strumenti per individuare e prevenire i tanti altri Vajont che sono dietro l’angolo.
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