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L’eclissi di Noa nel nostro mondo anoressico

Noa Pothoven, diciassettenne olandese, autrice del libro Vincere o imparare, il racconto delle violenze sessuali ripetute, subite tra gli 11 e i14 anni, è morta suicida, non riuscendo a venire […]

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 6 giugno 2019

Noa Pothoven, diciassettenne olandese, autrice del libro Vincere o imparare, il racconto delle violenze sessuali ripetute, subite tra gli 11 e i14 anni, è morta suicida, non riuscendo a venire a capo della depressione e dell’anoressia in cui era precipitata.

Negatale l’eutanasia per la sua giovane età (che era stata invece concessa a una giovane belga gravemente depressa, quattro anni fa), ha posto fine alla sua vita scegliendo di morire della malattia che l’affliggeva, portandola all’estremo: rifiutando cibo e acqua. Con il consenso dei suoi genitori.

In precedenza era stata sottoposta a ospedalizzazioni allo scopo di impedirle di agire contro se stessa e di essere alimentata per via parenterale, ma la cura coercitiva non ha fatto che rinforzare la sua decisione di farla finita. La sua impotenza a vivere è diventata potenza di morire e la nostra impossibilità a curarla si è risolta, checché se ne possa dire, con un certo sollievo. Ci ha tolto un peso.

Il sollievo è “magro”, come ogni forma consolazione a cui, ognuno a modo suo, possiamo fare ricorso. Siamo rimasti vivi, ma un pezzo di morte si è infiltrato dentro di noi. Un po’ dell’insensatezza che vaga senza nome tra le nostre vite, quel tipo di vuoto che non promette riparazioni e non conosce il lutto. L’eclissi di Noa mette in seria crisi -che si spera non sfoci in un investimento più ostinato dell’accanimento terapeutico- la nostra pretesa di potere “curare” la sofferenza psichica come se fosse una polmonite o un diabete. Del dolore dell’anima si può “prendere cura”, non si può pretendere di “guarirlo”, eliminarlo. Si può far in modo che nella persona sofferente prenda forza e forma ciò che è vivo, che il malessere fluisca diventando travaglio di un gesto creativo, non diventi stagnazione, veleno che fa putrefare il tessuto psicocorporeo dell’esperienza.

Il rifiuto di Noa di mantenere in vita il suo corpo biologico, un atto di disperazione (che rifiuta la consolazione e non disconosce la speranza), non asseconda la morte, come distrattamente si potrebbe pensare: la contesta, pur restandone sconfitto. La giovane senza alloggio in questo mondo, non ha voluto un destino di morta vivente, viva materialmente, morta psichicamente. Ha fatto morire una vita artificiale, staccandone la spina, ma non l’ha fatto in modo istantaneo. Ha preferito rendere visibile, attraverso il suo negativo, il fantasma dell’anoressia del desiderio che domina silenziosamente ogni forma di “biopolitica”: la volontà di trasformare gli esseri umani in corpi materialmente sani e ben funzionanti, agenti secondo schemi mentali/comportamentali che rendono l’esistenza prevedibile, ripetitiva, omologante.

L’anoressia vera, il trionfo dell’inerzia psichica, non è il deperimento corporeo, bensì la disincarnazione, de-sensualizzazione dell’esperienza che ben si accorda con un vivere salutista, deprivato di piacere, e un corpo vigoroso, solido. Il modo con cui Noa ha scelto di morire (al posto di qualsiasi altra forma di suicidio) mette in risalto un aspetto dell’anoressia intesa come degradazione somatica. Se da una parte essa esprime un attacco al corpo, fonte originaria, a dispetto di ogni sua manipolazione, del piacere del vivere, dall’altra denuncia il canone di un corpo “ariano”, automa desoggettivato.

Difendere la vita biologica di una persona, lasciandola in preda alla morte psichica, fa il gioco dell’anoressia. Non abbiamo salvato Noa. Più grave sarebbe che fosse morta invano.

 

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