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LeBron James, megafono di Black Lives Matter

LeBron James, megafono di Black Lives MatterJames con una maglietta di solidarietà nei confronti dell'omicidio di cittadini neri da parte della polizia americana, durante un riscaldamento pre-partita

Sport e politica Il campione dei Lakers si è esposto con parole dure contro il presidente Trump e in sostegno delle proteste per i diritti civili e contro le discriminazioni

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 20 giugno 2020

Il razzismo, le disuguaglianze, una sfida da vincere, come una partita da basket. È il sogno che porta avanti un ex ragazzino di un ghetto dell’Ohio che domina nella Nba da 15 anni e che prova a portarsi sulle spalle il carico di secoli di violenze, di uccisioni, di abusi sugli afroamericani. LeBron James è senza discussioni la stella polare dello sport americano dell’ultimo decennio. E non solo per i titoli Nba, per le finali giocate in fila dal 2011 al 2018 (un record), per il terzo posto assoluto nella classifica dei marcatori o per la sterminata fila di multinazionali distese fuori alla porta di casa per associare un prodotto al suo viso, al suo corpo.

LeBron, ora ai Los Angeles Lakers, è schierato in prima persona affinché la lega del basket riparta (e lo farà dal 30 luglio, a Disney World, perché il colpo di scena è nelle corde degli americani) dopo la pausa forzata dalla furia del Covid-19. Molti colleghi dicono che si tornerà a giocare solo perché lui vuole che la palla riprenda a correre verso il canestro. La sua voce, mediatica, arriva, forte e chiara. Attraverso i social, le tv, i quotidiani.

«Adesso capite perché protestiamo?», è stato il suo primo tweet pochi minuti dopo la notizia dell’uccisione di George Floyd, 46enne afroamericano, a Minneapolis, soffocato da un poliziotto poi incriminato da un video che non avrebbe potuto non mettere sottosopra gli Stati Uniti, per la sua violenza, nonostante gli abusi della polizia sugli afroamericani – dati forniti dalla società di market data Statista – siano oltre il doppio di quelli compiuti sui bianchi. Il tweet era accompagnato da una foto divisa a metà tra il poliziotto-assassino di Minneapolis e Colin Kaepernick, il giocatore di football americano che quattro anni fa – nella primavera delle ripetute violenze della polizia sui neri – si mise prima seduto e poi in ginocchio durante l’esecuzione dell’inno nazionale pre-partita, liturgia sempre osservata nello sport americano.

Era l’inizio di una forma invasiva, mai urlata, ma continua di dissenso verso l’escalation razziale mai fermata e pure verso Donald Trump, che minimizzava quella furia razzista, diventando paonazzo per le manifestazioni anti inno nazionale. Kaepernick da allora è rimasto senza squadra, respinto con perdite dal mondo del football, James ha invece sostenuto il suo messaggio, l’ha pure rafforzato quando Trump, poche settimane dopo, ha ritirato con un tweet l’invito al campione della Nba, Steph Curry che con i colleghi dei Golden State Warriors avrebbe dovuto sfilare alla Casa Bianca per le celebrazioni del titolo nazionale, vinto contro lo stesso James e i Cleveland Cavaliers e invece si rifiutò.

U bum Steph Curry already said he ain’t going! So therefore ain’t no invite. Going to White House was a great honor until you showed up!, il tweet in cui James ha osato definire il presidente degli Stati Uniti un buffone (bum), perché quella revoca dell’invito era inutile e provocatoria, Curry non avrebbe stretto la sua mano presidenziale. Uno schiaffo a Trump. Anzi, più un pugno degno di Muhammad Alì, una specie di eredità virtuale ricevuta dal fenomeno di Louisville, il pugile più grande di sempre e sportivo del Novecento, suo punto di riferimento, anche e soprattutto per la faccia esposta contro l’ingiustizia sociale.

Anche Alì avrebbe fatto i guantoni con Trump e le sue politiche verso le minoranze, così come gettò nelle acque del fiume Ohio l’oro vinto a Roma nel 1960 e, sette anni dopo, perse il titolo mondiale dei pesi massimi per il rifiuto di indossare la divisa militare in Vietnam. «Dov’è il Vietnam? In tv. Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato negro», le argomentazioni di Alì rivolte al governo degli Stati Uniti.

James è cresciuto idolatrando Michael Jordan, la sua maglia numero 23 dei Chicago Bulls che ha dominato il basket negli anni Novanta aprendo alla figura dell’atleta intrecciato ai grandi marchi pubblicitari, aprendo anche a lui, che ha un accordo a vita con Nike, la prospettiva di incassare milioni di dollari. Ma Jordan, pur essendo icona per i neri dopo le scuole e il college nel North Carolina tra le offese dei bianchi che lo chiamavano inferiore, non ha mai preso posizione sui razzisti, sulle violenze, sulle morti. Ha fatto sentire la sua voce solo dopo l’uccisione di George Floyd, dopo un trentennio (criticato) di silenzi.

L’eredità per LeBron, la legacy secondo il linguaggio sportivo degli americani, arriva da Alì e dagli altri interpreti di un attivismo sociale che forse può essere così esibito e vissuto fisicamente solo in un Paese così segnato dalla disuguaglianza come l’America. John Carlos e Tommie Smith a Città del Messico nel 1968, pugno teso e sguardo in basso, Bill Russell, altra leggenda Nba impegnato nella causa anti razzista che si vide rifiutare, assieme a due compagni di squadra afroamericani, una camera d’albergo in Oklahoma, nel 1954, fino a Jackie Robinson, il primo atleta nero nella lega nazionale di baseball (1947).

James anni fa ha lavorato a un documentario sulla vita di Alì, finanziando con oltre due milioni di dollari anche una mostra sul pugile, spiegando che se Alì non ci avesse messo la faccia, lui manco sarebbe emerso, povero e senza padre, da quel ghetto nell’Ohio. E anche in onore di Alì, ha lanciato l’organizzazione More Than a Vote, appoggiata da altre stelle dello sport ma anche di artisti e figure conosciute nell’opinione pubblica statunitense, con lo scopo di proteggere il diritto di voto degli afroamericani in vista delle elezioni presidenziali di novembre. Non solo protesta ma anche proposta, sulla scia delle difficoltà di voto per i neri emersa recentemente nelle primarie in Georgia.

Forse, un primo passo verso l’ingresso in politica, forse il sogno della Casa Bianca, nelle fila dei democrat, una volta chiusa una straordinaria carriera sul campo. E prima di More Than A Vote, c’è stato Rise Up: il movimento che ha cambiato l’America, un documentario sui diritti civili coprodotto e in onda su History Channel per il 50esimo anniversario della morte di Martin Luther King Jr, con interviste all’attivista e politico americano Jesse Jackson e all’ex presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton.

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