Cultura

Le «Voci Amefricane» che raccontano le strategie di resistenza culturale

Le «Voci Amefricane» che raccontano le strategie di resistenza culturaleFoto Ansa

Dal Brasile Un'antologia a cura di Alessia Di Eugenio e Francesca De Rosa per la casa editrice Capovolte

Pubblicato circa un mese faEdizione del 30 agosto 2024

A metà strada tra il saggio e l’antologia, il libro Voci Amefricane, curato dalle ricercatrici Alessia Di Eugenio e Francesca De Rosa per la collana di pensiero femminista Intersezioni della casa editrice Capovolte (pp. 96, euro 18), offre un mosaico caleidoscopico di testi e visioni di donne «che caricano il peso delle conseguenze storiche della colonizzazione», contribuendo al riconoscimento e alla legittimazione di saperi alternativi «storicamente subalternizzati».

POTENTI VOCI, quasi mai ancora tradotte in italiano, dell’Améfrica «delle rivolte, delle strategie di resistenza culturale, delle forme alternative e libere di organizzazione sociale del passato che fioriscono ancora oggi». Voci di donne che ne hanno abbastanza, come ripeteva l’artista makuxi Jaider Esbell, delle tante persone che parlano per loro. Proprio come avviene nella storia narrata dall’antropologa e femminista nera Lélia Gonzalez, in cui «alcuni bianchi davvero simpatici» invitano un gruppo di neri alla presentazione di un libro su di loro senza mai prendersi la briga di ascoltarli. «Siamo stati persino invitati a sederci al tavolo dove erano seduti loro, che facevano un bel discorso, dicendo che eravamo oppressi, discriminati, sfruttati». Solo che il tavolo «era così pieno di persone che era impossibile sederci lì».

Voci di indigene legate al concetto di sacralità, come dimensione definita dalla connessione con la terra e con il patrimonio che essa rappresenta, in cui «la “donna-terra” è sacra, come sacra è la sua parola». Voci di nere e quilombolas, impegnate a sfatare il mito della democrazia razziale, la teoria di un’armoniosa mescolanza etnico-culturale che, «con il tempo, ha contribuito a consolidare quello che Roger Bastide definiva come il tipico e nazionale “pregiudizio di non avere pregiudizi”, ovvero l’idea di un antirazzismo intrinseco alla società brasiliana», malgrado le politiche del branqueamento (sbiancamento) e le evidenti disparità in ambito educativo e lavorativo, con le loro ricadute sul piano culturale, sociale e politico. «Sono stata sbiancata a casa, a scuola, nei corsi di formazione e all’università», scrive Bianca Santana, aggiungendo: «Ancora in cerca di identità, sono felice di dire che sono nera da dieci anni».

Voci di lavoratrici domestiche, le cui esperienze lavorative, di sfruttamento, razzismo, abuso di potere e sessismo, sono state raccolte dalla rapper, attivista e studiosa Preta Rara in una pubblicazione che già nel sottotitolo collega la senzala, gli alloggi destinati agli schiavi di una fazenda durante la schiavitù, al quartinho da empregada, lo stanzino della domestica, rendendo in tal modo esplicito «il razzismo strutturale del paese».

E, ANCORA, voci di faveladas, capaci di sfidare la criminalizzazione indistinta degli abitanti delle periferie, di cui, al contrario, Marielle Franco aveva saputo valorizzare il potenziale economico, culturale e umano. Voci queer (o cuír) decise a rivendicare «la presenza di narrazioni e personaggi che sfuggono alla normatività sessuale e al binarismo di genere».

«Leggere questi testi – scrive nella postfazione Valeria Ribeiro Corrosacz – diventa un’immersone nell’amefricanità», quel concetto che, riconnettendo Abya Yala e Africa, evidenzia il fondamentale apporto, negato e invisibilizzato, della diaspora nera e delle popolazioni indigene; «nell’ancestralità». Una ricostruzione affidata principalmente all’oralità e alle memorie tramandate dagli antenati attraverso pratiche, rituali, storie, lingue, tradizioni culturali e religiose; e «nello scrivivere» (o escrevivência), inteso come una scrittura che nasce dal quotidiano, dai ricordi, da esperienze tanto individuali quanto comunitarie, facendosi portavoce di un’eredità generata dal colonialismo, dalle diaspore, da vissuti di sofferenze e resistenze. «Il nostro scrivivere – spiega la scrittrice Conceição Evaristo – non può essere letto come una storia della buonanotte per addormentare quelli della casa dei padroni, piuttosto per disturbarli nei loro sonni ingiusti».

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