Le vittime di Rupganj e gli obblighi dei brand
Bangladesh Oggi quell’Accordo e gli straordinari progressi raggiunti dalla sua entrata in vigore sono a rischio, appesi a un negoziato ad oltranza che ne prolunga gli effetti per soli tre mesi
Bangladesh Oggi quell’Accordo e gli straordinari progressi raggiunti dalla sua entrata in vigore sono a rischio, appesi a un negoziato ad oltranza che ne prolunga gli effetti per soli tre mesi
Sono almeno 52 i lavoratori morti nel rogo di uno stabilimento di trasformazione di prodotti alimentari, nel distretto industriale di Rupganj, a circa 25 chilometri a est della capitale Dacca.
Un fatto terribile che riporta subito alla memoria l’incendio della Tazreen, anche lì i lavoratori cercavano la salvezza gettandosi dalle finestre. E poi ovviamente quel tragico 24 aprile del 2013, quando persero la vita almeno 1.134 lavoratori sotto il crollo dell’edificio Rana Plaza dove operavano 5 fabbriche tessili fornitrici di famosi brand della moda internazionale. Si trattò del più grave incidente industriale mai accaduto in una fabbrica tessile e la scala di quella tragedia costituì la spinta principale alla stipula dello storico Accordo sulla prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici. Nel corso degli ultimi 8 anni, pari alla durata dell’Accordo internazionale scaduto lo scorso 31 maggio, i risultati sono stati straordinari, soprattutto alla luce del contesto nazionale e internazionale che ne ha accompagnato gli effetti operativi. Un contesto politico ed economico allergico alle regole e sempre pronto a respingere ogni tentativo di vincolare le imprese al rispetto delle norme in materia di diritti umani e del lavoro, pure se fondamentali per lo stesso funzionamento del mercato, come la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro. Oggi quell’Accordo e gli straordinari progressi raggiunti dalla sua entrata in vigore sono a rischio, appesi a un negoziato ad oltranza che ne prolunga gli effetti per soli tre mesi. In gioco non c’è solo la richiesta di prolungare l’accordo internazionale che ha dimostrato di proteggere la vita di almeno 2 milioni di lavoratrici e lavoratori tessili impiegati nelle 1.687 fabbriche coinvolte nell’ambizioso programma di risanamento fondato, tra gli aspetti più rilevanti e innovatovi, su ispezioni indipendenti, elevati livelli di trasparenza, meccanismi sicuri e imparziali di reclamo per i lavoratori che possono esercitare il diritto a rifiutare il lavoro se insicuro. In gioco c’è anche la richiesta, messa sul tavolo negoziale fin dal 2020 dai sindacati internazionali e sostenuta dalle Ong cofirmatarie, di estenderne i benefici ad altri paesi produttori con gli stessi elevati rischi per la sicurezza dei lavoratori e dove si sono registrati incidenti analoghi come, di nuovo recentemente in Pakistan, in Marocco e in Egitto. I 200 marchi globali spinti a firmare quell’Accordo sotto la forte pressione internazionale alimentata dalla immane tragedia del Rana Plaza, nonostante ne abbiamo spesso pubblicamente riconosciuto la validità e i benefici, non hanno ancora sciolto le riserve per confermare la continuità e l’estensione di un programma che ha funzionato, nonostante ancora molto resti da fare, a conferma della assoluta necessità di non abbassare la guardia della vigilanza internazionale per proteggere ed estendere i progressi raggiunti.
I 52 morti di ieri nella fabbrica alimentare di Narayanganj, ma decine sono quelli ancora dispersi, non lasciano dubbi sull’unica cosa da fare subito e senza indugio: rinnovare ed estendere l’Accordo sulla sicurezza lasciandone intatti gli aspetti che lo hanno reso efficace: l’obbligo per i brand firmatari di garantire la messa in sicurezza delle fabbriche da parte dei loro fornitori e il rischio per le imprese fornitrici di cessare i rapporti di commerciali con i marchi committenti, in caso di non adeguamento alle leggi nazionali e agli standard internazionali. Detto in parole povere, o le fabbriche si adeguano o escono dal mercato, cosa che è in effetti accaduta a 190 fornitori inadempienti e perciò esclusi dalla fornitura per i 200 marchi firmatari. Mentre i brand che non rispettano quanto previsto dall’accordo e i loro obblighi verso i fornitori, possono essere portati davanti a un giudice attraverso il meccanismo dell’arbitrato. In sostanza, quello che è in gioco, è uno dei pochissimi esempi al mondo di due diligence su diritti umani applicata alla catena di fornitura, un modello da preservare e replicare anche in vista della legislazione sulla due diligence sul rispetto dei diritti umani che sarà presto in vigore nell’UE. Un modello da applicare a tutti settori dell’economia e anche al mercato interno, senza distinzione.
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