Le vie dei poeti vagabondi
Intervista John Gian e Rita Degli Esposti una comunità poetica che fa capo ai Beat
Intervista John Gian e Rita Degli Esposti una comunità poetica che fa capo ai Beat
Si intitola -P-, e non è un libro facile quello scritto da John Gian, nome d’arte di Gianantonio Pozzi (Vicenza 1949), che in un susseguirsi di parole e brevi frasi, separate tra loro e collegate da un trattino, fa esplodere una dopo l’altra immagini connesse e disconnesse a formare un racconto senza capo né coda apparenti, un intreccio di luoghi, amici, emozioni, ricordi di una vita che si fanno largo tra annunci pubblicitari, bollettini di guerra, episodi di cronaca nera. Un concentrato di realtà che indica le coordinate di un altro spazio-tempo, dove può essere un sorriso e non il denaro la misura di tutte le cose. Con John Gian e Rita Degli Esposti, poetessa e sua moglie, entriamo in -P- (The Writer edizioni, pp. 220, euro 17) .
Cosa c’è dietro questo titolo?
Ho cominciato a scrivere questo libro a San Francisco. Avevo incontrato Ted Berrigan a New York, precedentemente anche ad Amsterdam, e Ted faceva una rivista che si chiamava C, che in America è anche il do musicale, per cui ho pensato che poteva andare bene P per poesia…
Quando hai iniziato a scriverlo?
Nel 1979
E quando l’hai finito?
Non e’ finito.
Una componente fondamentale del libro sono i trattini. Ripeti più volte «tagliare le linee delle parole – disconnettere i fili del potere»…questo è William Burroughs…
Sì è il cut up…anche se quello di Burroughs e Brion Gysin è per così dire meccanico, loro tagliavano e ricomponevano…qui è più sul flusso mentale, ci sono frammenti di scritti da giornali, libri…ma non è un processo meccanico.
Tra le righe appaiono tra gli altri Joanne, Ted, Gregorio, Anne…ovvero Joanne Kyger, Ted Berrigan, Gregory Corso, Anne Waldman...
Compaiono soprattutto nei primi capitoli, scritti mentre con Rita li stavamo frequentando. Siamo arrivati negli Stati Uniti all’inizio del 1979, a New York, poi ci siamo trasferiti a San Francisco, siamo stati un periodo a Bolinas da Joanne e poi di nuovo a San Francisco.
Avete conosciuto parecchi esponenti della Beat Generation, siete diventati amici con qualcuno di loro?
Bé amico di quelli più vecchi no, anche se li ho conosciuti e visti più di una volta, con Burroughs per esempio ci siamo incontrati sia ad Amsterdam che negli Stati Uniti a Boulder, più di una volta, ma parlare di amicizia…lo posso dire riguardo a Joanne Kyger, Anne Waldman, Jim Koller, tutte persone che sono anche venute a casa nostra qui in Italia..
Tuo padre ti diceva veramente «Questa è la storia della vacca Vittoria morta la vacca finita la storia»?
Sì , è uno scioglilingua antifascista nato durante la guerra, per il fascismo la vittoria era il massimo, mio padre era partigiano, poi alla fine della guerra è entrato nella polizia, prima faceva il maestro di scuola elementare a Treviso.
L’origine del nome John Gian?
Eravamo andati a trovare Gary Snyder nella sua casa tra i boschi della Sierra Nevada in California, gli abbiamo portato una pubblicazione che avevamo fatto io e Rita a San Francisco e lui ci ha dato un libretto che aveva appena pubblicato e nella dedica ha scritto John Gian. Tornato in Italia ho pensato di utilizzarlo come pseudonimo.
-Fabio Garriba in piedi su un tavolino di un bar insulta il Pci-
È avvenuto durante un controfestival del cinema a Venezia, forse l ’autunno 1973. A Campo Santa Margherita a un certo punto Fabio è salito su un tavolino del bar – il controfestival era autogestito ma la componente del Pci era abbastanza presente – e c era qualcosa che non gli andava bene..non ricordo, ma era ubriaco, abbiamo dovuto portarlo via per evitargli un po’ di botte…non è stata la prima volta.
Chi era «steso pallido sul pavimento del Caffe’ Trieste»?
Era un nostro amico bolognese, Gianluca Torrealta,
Rita: era un amico mio quando eravamo al Liceo, soffriva di epilessia, il Caffé Trieste era un posto frequentato da artisti, poeti e beat, a North Beach, Little Italy, vicino alla libreria City Lights di Ferlinghetti, e noi abitavamo lì.
Il peyote?
Ne ho preso solo piccoli frammenti, non ho avuto una grossa reazione, di Lsd ne ho preso molto, anche troppo.
Rita: l’abbiamo preso anche a Boulder, e ancora sotto l’ effetto siamo andati a trovare Burroughs. È stato molto carino, molto gentile, la sua camera sembrava uscita da una ragnatela, come se niente fosse stato usato da molto tempo. I miei ricordi sono molto visivi, c’era un costume da bagno appeso alla finestra, c’era una piscina in questo edificio dove erano ospitati quelli che insegnavano al Naropa Institute.
Gli abbiamo bussato, lui ha aperto e sembrava come sempre una specie di entità non terrestre. Io avevo molta soggezione di questo signore anche perché aveva scritto la famosa frase «woman is a basic mistake», per cui ero un attimo prevenuta. Aperta la porta ci ha guardato e ha fatto il solito ghigno e «Weeell introduce yourself» come a dire mo’ che vuoi da me…siamo entrati, ci siamo messi a parlare un po’ poi Gian è uscito a prendere qualcosa per un periodo che nella mia percezione è durato ore, mentre invece sarà stato poco tempo. Mi sono spaventata perché aveva su uno scaffale dei vocabolari, Oxford mi pare, con sopra un guanto, giallo. Siccome io ero diciamo in una condizione un po’ particolare ho guardato questo guanto e mi ha dato fastidio. Lui l’ha percepito immediatamente, si è alzato, ha preso il guanto e mi ha fatto – pfff!! non è niente – e l’ha ributtato là. Io stavo fumando un bidi, lui ha preso un portacenere l’ha messo ai nostri piedi e ci siamo messi a parlare del festival di poesia di Castelporziano, dell’ Italia…è stato decisamente gentilissimo.
Era cosciente che eri in acido?
Non lo so, secondo me l’aveva capito, quando siamo usciti ha intuito che non volevo prendere l’ascensore perché era tutto chiuso, e senza che io dicessi nulla mi ha portato alle scale e mi ha detto vai giù da questa parte. Una persona di grande sensibilità, sempre estremamente gentile. Ma non voleva rotture di coglioni, quello sì.
– In vaporetto ogni mattina con l’ abbonamento – foto con giacca a quadri piccoli –
John: A un certo punto abbiamo avuto due figlie per cui ci siamo dovuti mettere a lavorare. L ‘abbonamento al traghetto era per andare al lavoro. Ho insegnato storia dell’arte in diverse scuole superiori, soprattutto nel liceo artistico. La giacca era canadese, quelle con i quadri rossi e neri, ci ero molto affezionato l’ho dovuta a un certo punto abbandonare per vecchiaia.
Cosa ricordi di questi viaggi in vaporetto?
A Venezia le situazioni sono completamente diverse. La mattina presto poteva essere anche interessante, certe volte il vaporetto era proprio vuoto, soprattutto quando andavo fuori Venezia a lavorare perché andavo via molto presto la mattina. Lì ho avuto delle visioni di Venezia molto interessanti con qualsiasi situazione ambientale, atmosferica, dalla nebbia al sole, l’ alba, cose piuttosto eccezionali. I ritorni invece potevano essere pesanti in certi casi perché se arrivavi in certe giornate che c’era un flusso grosso di turisti diventava dura già combattere per salire e quindi magari scavalcare la fila, litigando… ma sai tu lavoravi e gli altri erano turisti.
– NGC appare scompare –
È Corso, Nunzio Gregorio. La parte inziale del libro è dedicata a lui, a San Francisco l’ avevamo frequentato.
– Interminabili partite di calcio – Cinta di Santa Marta –
È un ricordo da bambino, andavamo a giocare sotto le mura del carcere di Santa Marta, che è il carcere di Venezia, c’è ancora, era uno spazio abbastanza grande.
Eri bravo?
Me la cavavo, giocavo ala destra.
– essere – o non – ess – e – re – non c’ è – problema –
È una frase che ha a vedere con lo Dzogchen, con il nostro stare all’ interno dell’insegnamento di Norbu. Abbiamo fatto una lettura a Merigar, sul monte Amiata, presso la comunità Dzogchen, e quando ho letto questo pezzo Norbu si è fatto una gran risata. Sia io che Rita seguiamo gli insegnamenti di Norbu da una trentina di anni, da metà degli anni 80.
Rita: io non venivo da una famiglia molto religiosa però si andava a messa come ci andavano tutti e durante una messa pasquale o qualche altra festa, avevano spento tutte le luci poi sono entrati dalla navata centrale cantando «la luuuuce di Cristoooo» e hanno acceso le luci. Io avevo 14 anni, e ho detto no, no, ma basta, questa non è la mia storia .
Da lì ho cominciato un po’ a cercare, ero attratta dal pensiero orientale però poi ce ne ho messo prima di trovare quello che mi corrispondeva, quello che sai che c’è ma non hai ancora trovato. Importante all’ inizio è stato leggere Il libro tibetano dei morti, anche se in una orribile traduzione, e poi Aurobindo e libri della Ubaldini che aveva delle collane molto interessanti.
Ad Amsterdam, nel 1983 al One World Poetry Festival, organizzato da Ben Posset, un caro amico, io e Gian abbiamo chiuso il festival leggendo un testo che si chiama Percezioni illusorie colorate che avevamo scritto insieme basato sul Libro Tibetano dei morti. Una poetessa che si chiama Louise Landes Levi, americana di famiglia ebraica, mi ha portato una pagina di un libro in sanscrito, quei libri fatti a strisciolina, e mi ha detto guarda che in Italia c’è un maestro che insegna proprio queste cose qua attraverso i colori. Quando siamo andati in Toscana al centro Dzogchen sul monte Amiata c’erano ancora poche persone, c’era stata da poco Cernobyl e Norbu aveva dato a tutti una pastiglia… e da lì è cominciato un po’ tutto, poi lui è venuto a Venezia..
-El Tibetano-
John: El Tibetano è un libro che ha scritto Franco Beltrametti. Franco per me è stato una figura importante, l’ ho conosciuto nella valle del Belice dopo il terremoto. C’era un gruppo di persone che faceva capo a Lorenzo Barbera che a Partanna avevano creato un centro studi. Lorenzo Barbera era il principale allievo di Danilo Dolci, i due sono stati assieme per parecchio tempo poi si sono separati e Lorenzo aveva creato questo centro studi per organizzare la popolazione e avere la possibilità di ricostruire. Sono nate delle lotte anche piuttosto dure, con una marcia fino a Palermo e poi fino a Roma.
Io sono andato giù con un mio professore di architettura che era interessato a questa esperienza e lì ho conosciuto Franco Beltrametti. Era un architetto, aveva appena pubblicato Uno di quella gente Condor, per le edizioni Geiger di Adriano Spatola e Giulia Niccolai. Lo aveva scritto in California nel periodo in cui aveva conosciuto Jim Koller, è stato attraverso Franco che sono entrato in contatto con i poeti americani. Franco era della Svizzera italiana, ticinese, era stato in Giappone, aveva fatto il viaggio con la Transiberiana, e in Giappone aveva conosciuto Gary Snyder, Philip Whalen e Nanao Sakaki, poeta beat giapponese, poi era andato in California, e Gary Snyder l’aveva messo in contatto con Jim Koller, poeta, bioregionalista del Maine, parliamo della fine degli anni 60, poi è arrivato in Italia.
Aveva contatti con Adriano Spatola, Nanni Balestrini, quel giro di scrittori, Corrado Costa arriva dopo, aveva dato uno spazio che aveva in campagna a Mulino di Bazzano a Adriano Spatola e Giulia Niccolai e loro avevano iniziato a fare queste edizioni Geiger. C’era nel giro anche Patrizia Vicinelli, l’ ho conosciuta a Roma e non sapevo neanche chi fosse quando siamo andati a trovare Alberto Grifi, poi anni dopo l’abbiamo invece frequentata molto quando si è trasferita a Bologna, era bolognese.
Corrado, Adriano, Patrizia, erano tutti poeti e amici, il punto di riferimento per loro era Luciano Anceschi (Milano, 20 febbraio 1911 – Bologna, 2 maggio 1995, filosofo, critico letterario e saggista Ndr.). Emilio Villa ha fatto un percorso autonomo, ha avuto dei contatti ma non faceva parte di quel gruppo.
Alberto Grifi l’ ho conosciuto a Roma, mi interessava perché lui era già conosciuto come filmaker e io avevo cominciato a fare dei cortometraggi in super8 e in 16 mm. Attraverso un amico comune, Loreto Papadia, musicista. sono andato a trovarlo a casa sua a Trastevere. Mi ricordo di una persona molto gentile ma anche un po’ schiva, non aveva tanta voglia di parlare del suo lavoro.
Poche settimane fa è uscito in Italia il libro di poesie di Gary Snyder «Questo Istante Presente» (Jouvence 2017 €14) tradotto da Rita…
Rita: l’ho tradotto io ma poi è stato revisionato da Etan Addey, americana, bioregionalista, amica di Giuseppe Moretti che ha scritto la postfazione. In precedenza avevo tradotto di Snyder Songs for Gaia, uscito come inserto in una rivista che facevamo ai tempi, l ‘avevo tradotto facendo anche degli errori madornali perchè ero piccola, ero un po’ come dire spavalda e sono stata molto grata a Etan Addey perchè lei – soprattutto In This Present Moment ha trovato due tre cose importanti che io avevo cannato, non tanto per la traduzione in sé quanto perché non essendo americana e non condividendo certe cose dell’ ambiente non le sapevo.
Devi continuamente parlare con l’autore, rompere continuamente le scatole e questa cosa non è sempre semplice. Gary manda sempre un file Faq, della serie «a tutti i miei traduttori prima di tutto leggetevi questo così non mi richiedete perché la camicia scozzese dei pescatori dell’Alaska si chiama così» etc. etc..
Che rapporti avete col bioregionalismo?
John: Siamo in contatto con Giuseppe Moretti da molti anni, l’ abbiamo conosciuto attraverso Franco Beltrametti e di persona grazie a Jim Koller.
Rita: quello che mi piace del rapporto con Giuseppe è il fatto che lo trovo una persona bellissima, tra le poche persone che vale la pena frequentare anche per la sua visione non fanatica del bioregionalismo.
È una cosa che ho capito anche attraverso Gary, per il quale l’estremismo di certe posizioni non è praticabile, non ha senso, se fai del tuo meglio lo puoi fare anche in città. Mi ricordo che avevo scritto a Giuseppe che mi piaceva guardare la lucertola che veniva a farsi un giro attorno al peyote. L’avevo preso tanto tempo fa, ora purtroppo è morto, pare di morte naturale, non per colpa mia. Oppure guardare gli uccellini che venivano e mi facevano così con la testa per chiedermi la briciola… piccole schegge di natura a Venezia in una situazione che di naturale non ha più niente.
Marilù Parolini…
Rita: l’ abbiamo conosciuta a Sperlonga mente eravamo lì con Franco Beltrametti. Erano i mesi della latitanza di Balestrini, in Francia per scampare agli arresti del processo 7 aprile. Siamo andati a Sperlonga perché Franco ci ha detto venite qui che facciamo una rivista insieme. L’ abbiamo fatta, si chiamava Sperlonga Manhattan Express. Franco aveva affittato un piccolo appartamento che potevamo condividere, e Marilù abitava lì al piano di sopra. Ci vedevamo tutti i giorni. Franco già la conosceva, noi siamo diventati amici e da quel momento ci siamo frequentati, abbiamo fatto viaggi assieme, scorribande, lei lavorava nel cinema, era già un po’ incasinata, penso per l’alcool, non le davano tanto più volentieri da fare perché temevano che fosse inaffidabile, poi lei comunque apparteneva a quel momento del cinema in cui il suo ruolo non era solo fare la sceneggiatrice o la fotografa di scena, teneva insieme la gente. Mi raccontava che Pierre Clementi non arrivava perché era drogato marcio e lei lo sapeva e lo andava a prendere, lo vestiva, lo portava…questo era il clima. Marilù ha sempre rimpianto questo modo di fare cinema un po’ più di panza. Nel filmato-intervista L’ amica delle rondini di nostra figlia Irene, Marilù racconta un po’ queste cose. Io ho scritto un libro con Marilù, si intitola Le opache sicurezze della signora Kowanski, credo di averne una copia,
John: anche Fabio Garriba era amico di Marilù, lui aveva cominciato a scrivere prima di me, quando eravamo a Venezia all’università lui scriveva già, poi nel corso degli anni ci siamo tenuti in contatto e abbiamo pubblicato cose sue nelle riviste che abbiamo fatto a Venezia e Bologna. Siamo rimasti in contatto con lui fino a 10/12 anni fa, poi ci siamo persi di vista nonostante fossimo vicini, lui stava a Verona.
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