Visioni

«Le vele scarlatte», controvento verso l’utopia

«Le vele scarlatte», controvento verso l’utopiaUna scena da «Le vele scarlatte»

Al cinema Nel primo film in francese di Pietro Marcello, un padre e una figlia vivono della loro arte tra le due Guerre. Le immagini d’archivio raccontano l’epoca, segnata dallo sviluppo dell’industria; l’attrice Juliette Jouan, all’esordio, ha ispirato la scrittura del suo personaggio

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 12 gennaio 2023

Il nuovo racconto di Pietro Marcello è stato girato in Normandia ed è il primo film francese di questo cineasta che, prima di iniziare le riprese, non conosceva la lingua di Balzac e che nonostante questo è riuscito a condurre la propria équipe attraverso un genere che per eccellenza è iscritto in un luogo, in una lingua, in una cultura. Il cinema contadino, di cui sia l’Italia che la Francia hanno dato nel tempo degli esempi mirabili, al quale Marcello guarda senza soggezione, con l’idea di non imitare nessuno e di creare, alla maniera di un artigiano nel suo atelier, un oggetto unico più che una declinazione del genere.

COME ANNUNCIATO dal titolo, L’envol – tradotto in italiano con Le vele scarlatte – è un film arioso. Ed è la prima cosa che colpisce, perché i temi affrontati sono numerosi e per nulla leggeri. Al centro, c’è il rapporto tra un padre vedovo e sua figlia. Sullo sfondo, c’è la pratica dello stupro e della violenza che i maschi del paese si tramandano da una generazione all’altra. Accanto al paese, c’è una comunità di reietti a trazione matriarcale, «la corte dei miracoli». In questa oasi costantemente minacciata appare poi un altro tema, quello delle arti, nelle quali i protagonisti trovano il loro sostentamento tanto quanto sublimano la propria esistenza.

Il primo elogio che si deve al film è dunque quello della sua destrezza. Invece di restare schiacciato dalla massa di queste tematiche, L’envol le attraversa e le affronta senza alcuna disinvoltura. Il tema del padre e della figlia è quello più tenacemente incarnato nella coppia formata da Raphael, corpulento mastro d’ascia che ritorna dal fronte, e dall’esile Juliette, la figlia che lui riconosce senza esitare, anche se è nata durante la guerra, forse in seguito ad uno stupro. La differenza dei corpi non li separa ma anzi ne rafforza la filiazione. Con la sua mole titanica, con il suo volto di pietra e le sue incredibili mani callose, Raphael è un mostro nel senso del prodigio. Le sue mani, tozze e rozze, generano oggetti precisi e delicati. Juliette, di tutt’altra apparenza, è nella propria essenza fatta della stessa pasta. Ora, questa curiosa affinità degli opposti sarebbe inconcepibile e persino insensata se non riposasse su una realtà che gli attori trasmettono ai propri personaggi con inaudita effettività. Le scene in cui Raphael Thierry scolpisce il legno, o quelle in cui suona l’organetto, appoggiato ad un muro dopo il pranzo, potrebbero essere uno di quei materiali d’archivio che Pietro Marcello è così bravo a scovare e così abile ad inserire nei propri film. Dalle interviste che il regista ha rilasciato, veniamo a sapere che il personaggio di Juliette è stato in gran parte creato in collaborazione con l’attrice Juliette Jouan, qui al suo primo film. E che è l’attrice ad aver trovato, nel casale dove il lavoro è stato girato, una raccolta di poesie di Louise Michel. Ancora lei ad aver avuto l’idea di adattare in musica la poesia L’Hirondelle, proprio come fa il suo personaggio nella finzione. Chi vedrà il film non si stupirà infine nello scoprire che, in un certo senso, quel testo è diventato il canovaccio della seconda parte de L’envol.

Senza questa porosità tra la finzione e la produzione del film, L’envol non sarebbe altro che una simpatica fiaba. Paradossalmente, è con i bellissimi archivi che Pietro Marcello iscrive il proprio film nella realtà presente. Invece di costose scenografie e improbabili ricostruzioni, il film crea l’epoca con le immagini dei soldati dell’armistizio nella Baie de la Somme o con estratti del film di Julien Duvivier Au bonheur des dames (1930). Queste immagini d’archivio sono «presenti» in tre modi. In primo luogo, esse sono quello che rimane oggi di queste epoche passate. In secondo luogo, esse sono presenti a noi nella loro incredibile potenza e nell’emozione che trasmettono. Infine, sono presenti nel senso di un certo momento che il cinema attraversa.

NELLE NOSTRE sale troviamo da un lato film che spendono centinaia di milioni di euro, in un caso miliardi di euro, per creare universi immaginari. E dall’altro, un cinema d’autore che è sempre più impoverito. Questa evoluzione fa parte di uno dei tanti motivi del film: con l’arrivo dei giocattoli elettronici, gli artefatti di legno che Raphael crea non incontrano più l’immaginario dei bambini. La reazione non può essere allora quella di rincorrere l’industria ma, volando in direzione opposta, usare quello che esiste già. Si può sorridere a questo elogio della diversità che il film dispensa, come in genere si sorride delle utopie. Ma certo un sorriso è meglio che un piagnisteo. E, anche se questo nuovo racconto anarchico può sembrare più poetico che politico, bisogna pure ammettere che Pietro Marcello non si limita a dire che un cinema diverso è possibile, lo fa.

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