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Le vecchie sfide del nuovo alpinismo

Le vecchie sfide del nuovo alpinismoUeli Steck sulla cima del Matterhorn (4478 metri) a Zermatt, Svizzera – Robert Boesch

Recensioni Il "nuovo" alpinismo ormai è uno sport come tutti gli altri: allenamenti lontani dalle vette, programmazione meticolosa, tecnologia. Eppure non esiste uno "sport" come l'alpinismo. Perché scalare è un'attività fisica e mentale unica. Come spiega l'ultimo libro dei due climber Steve House e Scott Johnston uscito per Patagonia Books

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 22 aprile 2014

Il secolo breve dell’alpinismo eroico è finito nel 1980, quando un grande Reinhold Messner, primo uomo a conquistare l’Everest da solo e senza ossigeno, il primo a non piantare una bandiera in cima alla vetta, dichiarò che non aveva scalato “né per l’Italia né per l’Alto Adige, l’ho fatto per me”. Prima di allora l’alpinismo somigliava alla conquista dello spazio, una lotta tra nazioni senza razzi e senza missili, affidata in modo quasi militare a singoli individui, noti all’epoca più degli astronauti negli anni ’60. C’erano solo gambe, polmoni e sherpa. Tanti. Per sessant’anni centinaia di uomini armati di corda, piccozza e ramponi sono saliti fino alle più alte vette del pianeta piantando bandiere inglesi, tedesche, francesi e perfino neozelandesi e italiane (Compagnoni e Lacedelli, sul K2). Oggi a nessuno verrebbe in mente di farlo. Si sale per sé. Quando lo svizzero Ueli Steck si arrampica da solo in 2 ore e 47 minuti sulla parete nord dell’Eiger è un gigante mondiale dello sport che di elvetico non ha nulla se non il passaporto. Sale per sé, per la sua disciplina, la sua forza e passione. “Perché la vetta è là”, come disse l’inglese Mallory prima di tentare per tre volte (senza riuscirci) la scalata all’Everest negli anni ’20.

http://youtu.be/rzjpQF0_55A

L’ultra alpinismo, l’alpinismo moderno, ormai è uno sport come tutti gli altri. Quasi di massa. Perfino nella Roma del ponentino centinaia di bambini praticano l’arrampicata su pareti artificiali, entusiasti di una disciplina dal fascino unico e istruttori sempre più qualificati. Non si “va” più ad arrampicare, ci si “allena” per arrampicare. Almeno, è su questa strada, teorica e pratica, che il nuovo manuale Training for the New Alpinism di Steve House e Scott Johnston (Patagonia Books, 464 pagine, 25 dollari) segna un punto di svolta. Dopo questa voluminosa e curatissima “bibbia” niente sarà più come prima nell’alpinismo per professionisti. Arrampicare, con le mani o con i ramponi, su roccia o ghiaccio, oggi è il frutto di centinaia di ore di allenamento lontano dalle pareti e dalle falesie, come nello sci da fondo, la maratona o i 100 metri. L’arrivo in vetta è l’ultimo atto di una preparazione a tutto tondo, che non comprende più ore e ore di salite su roccia o ghiaccio.

Eppure l’alpinismo, l’arrampicata, è una delle espressioni fisiche più pure che esistano.Un misto di forza, energia e resistenza (i tre valori fondamentali di ogni atleta) che si uniscono a determinazione mentale, controllo della paura, gestione dell’equilibrio da danzatori, intuito da caccia e capacità propriocettive profonde. Perché se l’allenamento, la tecnologia e la medicina stanno spingendo l’alpinismo verso vette impensabili fino a pochi anni fa, l’arrampicata sportiva conserva ancora larghi tratti che rendono questa disciplina diversa da qualsiasi altra. Non c’è sport al mondo, nemmeno la vela, in cui per raggiungere il campo, la via che porta in vetta, si deve camminare giorni o rischiare la vita solo per “l’avvicinamento” alla parete. Come nella vela, peggio della vela d’alto mare, una volta partiti è impossibile tornare indietro se si è in difficoltà. E se qualcosa va storto, in una parete a migliaia di metri di altezza non c’è pausa né soccorso né ritirata possibile. Dopo ogni salita c’è una discesa, spesso altrettanto lunga e pericolosa. Fame, paura, freddo, fatica, sofferenza, sono gli unici compagni di strada sulle cime deserte. Nonostante i progressi tecnici, l’alpinismo delle alte vette resta uno sport rischioso, con un notevole tasso di mortalità e fallimenti. Perciò una preparazione fisica e mentale resta imprescindibile, anche a livello dilettantistico.

Il libro di House e Johnston non è per principianti. Aneddoti, cicli di allenamento e consigli sono rivolti a professionisti che mirano al top di questa disciplina. Eppure è osservando i giganti che qualunque climber impara dettagli, astuzie, metodi di preparazione e di sicurezza. Conservando nella memoria e adattando al proprio corpo e alla propria parete ciò che sembra impossibile e invece non lo è. C’è un mondo intero ancora da scalare. E ogni alpinista trova le vie più difficili dentro di sé. Perché, come dice l’epigrafe di C.L.R. James in un romanzo che può essere l’alter ego di questo manuale americano (Point Lenana, Roberto Santachiara e Wu Ming 1, Einaudi, 20 euro), “cosa sa di alpinismo chi sa solo di alpinismo?”.

[do action=”quote” autore=” C.L.R. James cit. in Point Lenana”]”Cosa sa di alpinismo chi sa solo di alpinismo?”[/do]

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