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Le variazioni di Mozart

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Musica Alla Tenuta dello Scompiglio di Vorno (provincia di Lucca), un programma di undici brani per sbizzarrirsi intorno alla figura di Amadeus. Da Scelsi a Cage fino a Gubajdulina

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 17 dicembre 2013

Entrano in scena tutti e otto con le loro belle camicie rosse. Gli strumenti, tutti uguali, imponenti, eleganti, otto contrabbassi, sono già sul palco, posti in semicerchio. «Sarà una liturgia», annuncia Daniele Roccato, il leader e solista principale dell’ensemble Ludus Gravis. Il cronista del manifesto, laico fissato, disponibile al sacro (forse) non al liturgico, vacilla un po’. Ma la parola, come tutte le parole (forse), non va presa alla lettera. Il concerto nel suo svolgersi lo dimostra: si tratta di un costante raccoglimento, di lirica solennità. E pure di dolcezza. Sala per musica dello Scompiglio. Teatro per le arti che, come un prodigio architettonico, sorge nella campagna lucchese.

Il programma di undici brani è uno dei più singolari che si possano immaginare. È uno dei modi di interpretare l’idea del ciclo Così fan tutti: vediamo cosa si può fare sbizzarrendosi intorno alla figura di Amadeus senza limiti di epoche e stili. Il programma, dunque. Da Mozart a Mozart passando per Scelsi, Pärt, Gesualdo, Henze, Cage, Gubajdulina. Un grande piacere già a leggerlo. Questo è anche il tripudio della trascrizione. Per contrabbassi: da uno solo al pieno di otto.

Diciamo subito. Il lavoro di Roccato con i suoi partner è mirabile. Passione e misura, abbandono e rigore. Sia nelle trascrizioni, insomma nella scrittura ulteriore di testi passati e recenti che non sono nati per questo organico variabile, sia nella qualità sopraffina, commovente, del suono e delle modalità esecutive. Sono in quattro i Ludus Gravis per il mottetto God is our refuge composto a Londra da Mozart nel 1765, quando aveva nove anni, e per l’altro mottetto Ave verum corpus composto nell’anno della morte, il 1791. Uno all’inizio e uno alla fine del concerto. Amadeus religioso? Con questi unisoni morbidi e netti di contrabbassi sembra che ci creda davvero e forse no.

Il suono di Ludus Gravis è quello di musicisti che amano il canto disteso e intimo (spirituale) dei loro strumenti, che li «adorano» letteralmente. Non fanno ascoltare in questa occasione le asprezze e le profondità materiche di un Ottetto di Scodanibbio, per esempio. Questa volta si dedicano alla cantabilità, appunto. Nobile e accattivante insieme. Roccato è da solo in Mantram (’87) di Giacinto Scelsi. Rivolto all’oriente, echi addirittura folk, una melodia riconoscibile e articolata. Scelsi rituale e cerimoniale. Si gode, niente da dire. Tanto anche con l’Arvo Pärt di My Heart’s in the Highlands (2000) con gli otto in azione. Quella sorta di basso continuo, realizzato con lo stile tintinnabuli, che poi è un semplice arpeggio armonico ripetuto (abbiamo il Pärt con tracce minimal forti, e funziona di più), accompagna la melodia dolce/mesta, intorno a un unico suono, del solista. Una melodia che non è tema e non è aria conchiusa.

Volendo scegliere, il climax di piacere del concerto è il trittico di madrigali di Carlo Gesualdo da Venosa trascritti per cinque contrabbassi. A Sparge la morte non si resiste: diventa sinuoso e caldo come non mai. Nemmeno a Se vi duol il mio duolo, più mosso, meno solenne. E nemmeno a Io pur respiro in così gran dolore che omaggia il titolo con un andamento danzante tutta grazia. Senza esagerare: Gesualdo è sempre un tipo serio e soffre molto. Renderlo easy quel tanto non è un affronto.

Trauer-Ode (’97) di Hans Werner Henze per sei strumentisti è un esempio di polifonia densa, quasi magmatica. Classicità in salsa novecentesca. Ludus Gravis, in formazione di quattro, fa ascoltare una delle più belle versioni di Dream (’48) di John Cage. Qui si sogna impegnati e attenti. Non come beatnik californiani in vacanza. Pater noster da Three Latin Prayers (’70) di Scelsi per tutti gli otto contrabbassi è una delle trascrizioni più audaci, vista la destinazione al canto solista dell’originale. Ancora uno Scelsi cantabile, persino leggero. Infine Sofia Gubajdulina. Pregevole nell’ampia Fata Morgana (2002), ensemble al completo. Sembra un brano pensato come un piccolo melodramma per strumenti, tra episodi di indagine sulla forma-romanza moderna, sfarfallii di suoni tragici e un «tutti» lancinante.

 

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