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Le tre amanti di un vecchio bambino

Le tre amanti di un vecchio bambinoIl regista Roman Chalbaud con una sua foto da giovane

Venezuela Intervista al regista Roman Chalbaud

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 2 gennaio 2016

«Vedi? Qui ero in Messico con Buñuel, nel ’53. Ridevamo per via di un cane che ci veniva incontro: un cane messicano, e non.. andaluso». Siamo a Caracas, nella casa del regista venezuelano Roman Chalbaud. Un «mostro sacro» del cinema e del teatro, che ha segnato gli esordi della televisione e che, a 84 anni, si diverte ancora come un ragazzino: a scendere in piazza, a inventare nuovi progetti, a giocare con gli amati cani in questa casa-museo che racchiude preziosi ricordi e racconta quasi un secolo di storia e cultura. Un artista che ama scegliere e schierarsi, con ironia e senso critico, ma senza ipocrisia. Tiene corsi di cinema nei quartieri popolari e nelle fabbriche recuperate. Durante la campagna elettorale per le parlamentari del 6 dicembre, insieme a un gruppo di altri registi autorevoli – fra i quali Liliane Blaser, Wilmer Pérez, Vladimir Soza, Eduardo Viloria – ha appoggiato il progetto politico diretto da Nicolas Maduro, «che ha dato dignità alle donne e agli uomini di cultura, e al popolo venezuelano».

Il manifesto dei cineasti, presentato nella sala principale del Teatro Bolivar, ha evidenziato i sei fattori principali che, con la vittoria di Chavez (a dicembre del ’98) hanno avviato la rinascita del cinema venezuelano: «il forte incremento della produzione nazionale e dell’audiovisuale, l’aumento degli spazi e dei centri di formazione, la creazione e il rafforzamento dei fondi di finanziamento statali, la crescita esponenziale degli spettatori del cinema venezuelano». Con la rivoluzione bolivariana «e con l’entrata in vigore della nuova Ley de Cine, la costruzione della Villa del Cine e Unearte, tra il 2006 e il 2014, nelle sale venezuelane, commerciali o alternative, sono stati distribuiti 154 lungometraggi di fiction e documentari venezuelani», spiega Chalbaud. Ora, con la vittoria delle destre, tutto  è a rischio. Intanto, con il nuovo parlamento, «non si potrà approvare la seconda riforma alla Ley de Cinematografia Nacional, che avrebbe  ampliato il processo di democratizzazione del cinema»…

Il telefono squilla, il regista risponde, gentile: parla con entusiasmo di un libro da pubblicare, esalta le doti narrative del giovane autore. «Mi hanno proposto per tre volte di dirigere la Casa del cinema – dice poi – ma ho sempre rifiutato: non sono fatto per le scartoffie, per le rogne burocratiche, non potrei stare giorno e notte a una scrivania, ho bisogno di guardarmi intorno, di avere nuove idee. Però, certo, posso dare dei pareri, è bello veder crescere nuovi talenti». Sfogliamo insieme una collezione di giornali d’epoca, rilegata come un gigantesco libro di fiabe. Vi sono recensioni a tutta pagina di film celebri dei primi anni ’50. A firma Roman Chalbaud.

Ha cominciato come critico cinematografico?

Sì, a 19 anni. Ho inviato delle recensioni al quotidiano El Nacional, che allora era di sinistra e me le hanno pubblicate per anni, ogni giovedì. Non sapevo che le pagassero e così non ho mai messo piede al giornale, ma ho potuto recensire grandi film, molto cinema europeo. Questa è una recensione de Il tunnel, di Leon Klimovsky. Qui, vedi, sono in Messico a intervistare Buñuel e Dali. Film come Los olvidados oppure Roma città aperta mi hanno segnato per sempre. Allora mi resi conto che il cinema non serviva per evadere dalla realtà, ma per affrontarla. Ho avuto la fortuna di avere una nonna che da piccolo mi portava a vedere i film francesi perché voleva imparare la lingua. Lavorava molto e leggeva di notte, e io le rubavo i libri. Al liceo ho incontrato un professore spagnolo, in fuga dal franchismo, con cui ho scoperto la passione per il teatro, ho cominciato a scrivere testi teatrali, a metterli in scena. Poi è arrivata la televisione, nel ’53. C’era molta richiesta culturale, si faceva tutto dal vivo, non esistevano le registrazioni, mettevamo in scena testi letterari, classici del teatro. Sono stato direttore artistico del Canal 5, la rete di stato. Poi tutto è finito con l’arrivo dell’audience rating: in nome dell’indice d’ascolto, sono stati banditi i programmi culturali ed è arrivata la tv spazzatura a frullare i cervelli. Il cinema, il teatro e la tv sono state per me come una sposa e due amanti, anche se non saprei dire quale fosse la moglie. Forse, da allora, la tv è diventata l’amante cattiva.

Ma qui ci sono articoloni sull’arresto di Roman Chalbaud. Com’è successo?

Ah, sì, è stato terribile. Era d’agosto, nell’ultimo periodo della dittatura di Marco Pérez Jimenez, che sarebbe finita il 23 gennaio del ’58. La prima della mia opera teatrale Requiem para en eclipse , un testo a verso libero che tratta di una famiglia in lotta per il potere e della corruzione dello Stato, è stata interrotta. Metà del pubblico in sala era costituito dalla polizia politica. Mi hanno arrestato come sovversivo. In carcere ho assistito a violenze e torture, ma ho incontrato anche tanti compagni che lottavano per una vera democrazia, è stata un’occasione di crescita politica. Il 23 gennaio, durante l’insurrezione abbiamo aperto le celle, siamo corsi per strada. Pérez Jimenez è fuggito  a bordo dell’areo Vaca Sagrada, perdendo una valigetta di soldi. Quel denaro glielo aveva dato un mio cugino militare. La famiglia Chalbaud è grande, c’è di tutto. Mio padre aveva 22 fratelli, nati da tre matrimoni del nonno. Io porto il nome di Roman in onore a Delgado Chalbaud, che nel ’29 è arrivato su una nave dalla Francia per far cadere il generale Gomez e poi è stato ammazzato. La pièce è andata in scena a marzo. In quei primi giorni meravigliosi sono stato direttore del Teatro del popolo, a cui ho cambiato il nome in Teatro nazionale popolare, imitando il Théâtre national populaire di Jean Vilar. Abbiamo portato il teatro dappertutto. All’inizio, la gente prendeva posto nelle file più lontane, come per vedere un film.

E cos’ha fatto durante la IV Repubblica?

Dopo la fase di transizione, Romulo Betancourt ha tradito, alleandosi con gli Usa. Nel ’60, da una scissione di Accion Democratica si fonda il Mir, poi comincia la lotta armata. Sono stato amico di molti guerriglieri. Ho pianto la morte di Livia Gouverneur, assassinata il 1 novembre del ’61. Durante le democrazie della IV Repubblica, hanno svenduto il paese. Si gettavano gli oppositori di sinistra dagli aerei, c’erano centri di tortura clandestini come quello di Guasina. Io ho sempre lavorato, ma ci sono stati tempi durissimi, non avevo un soldo e nessuno voleva produrre i miei film. Ho scritto molte sceneggiature. Nel ’61, la polizia accerchiò il teatro in cui si proiettava Sagrado y obsceno e proibì l’opera. Io andai al Nacional per denunciare la censura, ma l’intervista non venne pubblicata. La pièce era ambientata in una pensione popolare, specchio degli umori del paese. Il pubblico, che aveva prenotato con 3 settimane d’anticipo, gridava: «Abbasso il governicchio di Betancourt». A metà degli anni ’70 facemmo un adattamento cinematografico cambiando l’ambientazione: nella pensione arriva un guerrigliero per vendicarsi di Mister Pollo, un politico di destra che ha fatto uccidere molti suoi compagni. Nel ’74 abbiamo adattato al cinema anche la pièce La Quema de Judas, narra il conflitto di una madre che ha avuto due figli uccisi, uno soldato e uno guerrigliero. Nel ’61 ho scritto anche la sceneggiatura di Dia de poder, la storia di un politico adeco a cui la polizia uccide il figlio comunista. Siccome nessuno voleva produrre il film l’abbiamo messa in scena come pièce nell’Università centrale, che allora era di sinistra. Nel 2011, è diventato un film prodotto dalla Città del Cinema.

Un film sulla rivolta del Caracazo, uno su Zamora, altri progetti in corso. Perché si è dedicato al filone storico?

Per sapere cosa fare, bisogna conoscere la storia, è importante trasmetterlo ai giovani. A febbraio del 2017 dovremmo finire il film su Cipriano Castro, a cui ho lavorato insieme allo scrittore Luis Britto. Purtroppo, abbiamo avuto intoppi a causa della guerra economica, che si avverte anche nel cinema. I grandi distributori vedono intaccati i loro interessi, vorrebbero tornare ai film di cassetta Usa, si beffano della legge. Ti faccio un esempio. Insieme a un gruppo di amici abbiamo comprato in internet dei biglietti per vedere un film venezuelano, Libertador. La legge dice che, se il film raggiunge un certo numero di spettatori può passare a una terza settimana di repliche. Sul posto abbiamo trovato uno degli attori che aveva portato altre persone. Alla cassa, però, gli hanno detto che non c’era più posto. Invece, c’erano delle file vuote. Non voglio nascondere i problemi, ma neanche sminuire le strategie messe in campo dalle destre per sfinire la popolazione e provocare la disaffezione al voto: dalla guerra economica a quella psicologica e mediatica condotta a livello internazionale. Ci hanno nascosto le medicine, gli alimenti e in molti hanno pensato che il governo non sapesse procurargli l’aspirina. Hanno persino usato la superstizione. Ho incontrato persone del popolo convinte che Maduro porti jella. Qui diciamo con ragione che Chavez ha aperto gli occhi al popolo, ora si tratta di non chiuderli e di raddoppiare l’impegno.

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