Scuola

Le tracce d’esame e il passato, nello spavento del presente

Le tracce d’esame e il passato, nello spavento del presente

Maturità Una scuola pensata essenzialmente come allenamento a un esame che scuola è? Davvero ci va ancora di parlare delle tracce ogni anno e non di questo? Si potrebbe, certo, ragionare a fondo, e lo si dovrebbe fare tutto l’anno, sull’immaginario di certi educatori

Pubblicato più di un anno faEdizione del 22 giugno 2023

Forse in pochi lo ricordano ma quando, nel 1997, il Ministro della Pubblica istruzione, Luigi Berlinguer, propose la sua riforma dell’esame di maturità in Senato scoppiarono dei tafferugli. I leghisti, allora all’opposizione, non accettavano di «farsi dare lezioni di democrazia» e si premuravano di far scoppiare «una zuffa generale» fra i banchi del parlamento.

Quello che non andava giù alla Lega era principalmente la questione della mancata parità di trattamento delle scuole private che, secondo la nuova proposta di esame, venivano in qualche modo penalizzate. Non mancarono comunque nemmeno le proteste degli studenti a rilevare l’anacronismo di un esame che non assomigliava in alcun modo al loro percorso di studio. Ma alla fine la riforma passò e da allora la maturità si chiama esame di Stato, anche se pare che la notizia non sia mai pervenuta ai mezzi di informazione che ogni anno, in questo periodo, puntuali come le bollette, lanciano il loro grido di dolore nel constatare che «non c’è più la maturità di una volta», che «ai miei tempi la maturità» era una cosa seria, e «che queste tracce della maturità fanno orrore». In effetti anche sulla maturità «di una volta» bisognerebbe intendersi.

Quando nel 1997 il Ministro della pubblica istruzione Luigi Berlinguer cambiò nome e metodi dell’esame di maturità lo fece perché quell’esame era «sperimentale», dal 1969. Anche nel 1969 c’era stato chi aveva gridato allo scandalo e rimpianto l’esame della sua giovinezza, ormai poco più di un ricordo lontano, come le lucciole che, infatti, di lì a poco sarebbero scomparse (forse a causa della riforma della maturità stessa).

Intorno a questa prova di fine ciclo ogni anno, da decenni, si riversano fiumi di retorica e di melensa nostalgia e orrendo conservatorismo, anche da parte di insospettabili progressisti o rivoluzionari che rimpiangono il «rito di passaggio». Ma se approfondiamo scopriremo che: «L’esame di Maturità è un’invenzione che risale alla riforma firmata da Giovanni Gentile nel 1923, nei mesi del governo Mussolini. Si articola in M. classica, M. scientifica e M. artistica – nasce dunque con il liceo, e ne rappresenta non solo il compimento ma il fine esclusivo, visto che i programmi di insegnamento fino allora in vigore vengono sostituiti con i programmi d’esame.

L’esame di maturità, quindi, viene a coincidere con la scuola stessa, con il suo principale motivo d’esistenza. La scuola – ovvero il liceo – è una sorta di allenamento degli studenti a sostenere la Maturità», e infatti gli istituti tecnici saranno considerati «degni» di avere anche loro la Maturità solo a partire dal 1969.

Ma una scuola pensata essenzialmente come allenamento a un esame che scuola è? Davvero ci va ancora di parlare delle tracce ogni anno e non di questo? Si potrebbe, certo, ragionare a fondo, e lo si dovrebbe fare tutto l’anno, sull’immaginario di certi educatori: colpisce la quantità di proposte di esame rivolte al passato, nemiche del presente, spaventate dal futuro. Colpisce, poi, la sciatteria di chi cita una «lettera aperta» come fosse una fonte di un dibattito reale e non la sineddoche perfetta di tanti dibattiti sulla scuola (ma per coglierla, questa sineddoche, bisognerebbe educare le persone per cinque anni a non prendere per buono quello che gli adulti spesso dicono sulla scuola).

Si potrebbe sottolineare poi che essendo il Ministro a scegliere le tracce fra una serie di proposte elaborate da una commissione di esperti assai diversi fra di loro, il contenuto delle stesse non può che somigliare al Ministro, e quindi, mi pare, su questo ci sia poco altro da aggiungere.

Tuttavia, anche a margine di una discussione per tanti versi così fuori fuoco, possiamo ribadire alcune cose: una scuola che continua a pensare che il contenuto di una disciplina sia più importante del modo in cui viene insegnata e quindi appresa, non può lamentarsi poi se alla fine escono un Quasimodo o una Fallaci. Se la battaglia, insomma, è fra contenuti che ci piacciono e contenuti che non ci piacciono, chiaramente non ci resta che abbozzare e aspettare il nostro turno, consapevoli del fatto che abbiamo perso. Ma questo già lo notava Giorgi Bini nel 1978: proprio sull’illusione che esistano «contenuti buoni» in sé, in effetti, avevamo perso.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.



I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento