Le Tesi della Sapienza, 50 anni dopo
MEMORIA A cinquant'anni dalle Tesi della Sapienza, come si misura il disssenso nel presente
MEMORIA A cinquant'anni dalle Tesi della Sapienza, come si misura il disssenso nel presente
La rivolta di Berkeley del settembre 1964 viene comunemente indicata come l’evento alle origini della contestazione studentesca. A Pisa però ci tengono a ricordare che la prima occupazione della Sapienza era avvenuta nel febbraio dello stesso anno in coda a una mobilitazione iniziata alla Scuola Normale nel novembre 1963. Due giovani protagonisti del movimento, Gian Mario Cazzaniga e Adriano Sofri, si erano già distinti l’anno precedente in una vivace polemica con Togliatti ospite per una conferenza in Normale. È in questo clima che nella seconda occupazione del febbraio 1967, più lunga e decisamente più conflittuale, vedono la luce le «Tesi della Sapienza» che Rossana Rossanda definirà come «il più complessivo e persuasivo dei tentativi teorici del movimento studentesco»; un testo chiave per comprendere il ’68 italiano e di cui nelle scorse settimane è stato «celebrato» il cinquantenario.
A riprova di quanto i tempi dello scontro siano lontani, è stata la stessa Università di Pisa a decidere di ripubblicare in un agile libretto le «Le Tesi» all’epoca edite sulla rivista Il Mulino e rapidamente diffuse in tutta Italia.
L’occupazione, messa in atto il 6 febbraio da circa settanta studenti, non coinvolge infatti solamente i pisani dell’Ugi (Unione goliardica italiana), contro il parere dell’Oriup (l’organismo rappresentativo degli studenti), ma anche i rappresentanti degli organismi studenteschi confluiti a Pisa per contestare la riunione della conferenza dei rettori. Siamo nei mesi in cui si discute il «Piano Gui» che rivede gli assetti universitari proponendo l’istituzione dei dipartimenti, prevedendo tre livelli di titoli di studio e facendo profilare un aumento delle tasse universitarie.
A Pisa come altrove soffia il vento della cultura operaista, di cui è un autorevole esponente locale Luciano Della Mea, redattore dei «Quaderni rossi» insieme a Raniero Panzieri. Non mancano poi spinte eterodosse che vengono dalla cattolica Intesa universitaria. In questo clima le «Tesi» sono il documento che mette nero su bianco la discontinuità; una posizione radicale respinta al successivo congresso nazionale dell’Ugi di Rimini, ma che nel giro di pochi mesi contagerà il sistema universitario. Pisa 1967 vuole essere un momento costituente e sembrano intuirlo anche i fascisti del Fuan che assediano la sede dell’Ateneo. L’occupazione verrà sgomberata dalla polizia la notte del 10 febbraio dopo che il rettore Alessandro Faedo ha autorizzato l’irruzione delle forze dell’ordine. Le «Tesi» rimangono però e diventano per il movimento il testo guida di una rifondazione dell’iniziativa studentesca.
Venendo ai contenuti, il «Progetto di tesi del sindacato studentesco» è portatore di una visione di classe della società e intende «rivendicare il controllo degli studenti sulla propria formazione in base all’analisi dello sviluppo capitalistico». I teorici della Sapienza si propongono di mettere a fuoco la «figura sociale dello studente inteso come forza-lavoro in fase di qualificazione» e chiedono il salario – in contrapposizione all’assistenzialismo statale – come riconoscimento della produzione di plusvalore.
La rappresentanza attraverso i «parlamentini» viene sostanzialmente rifiutata: «tutti gli studenti che non si confrontano con la teoria e con la pratica del movimento sono estranei a esso». La controparte dentro l’università è identificata nell’intero sistema gerarchico, considerato l’«espressione mediata del piano organico del Capitale».
Sul lungo termine, infine, la validità del percorso teorico andrà verificata nelle lotte operaie, in connessione con gli studenti medi e con i movimenti globali antimperialisti. Lette oggi le «Tesi» scontano davvero il peso della loro età. Eppure vale la pena chiedersi quanto ci sia ancora di attuale in alcune affermazioni quali il «rifiuto del nozionismo e della verticalità della didattica», del classismo del sistema educativo e della «separazione netta fra l’università e il resto della città». Da allora il sistema è molto cambiato certo, ma bisognerebbe riflettere sulla direzione che ha preso questo cambiamento, tra la decadenza dell’università pubblica, l’inutile propaganda dell’eccellenza e l’affermazione di alcuni poli per pochi privilegiati.
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