Louise Glück, le sue esperienze personali si riflettono nell’archetipo, e se ne lasciano illuminare
Nobel letteratura Dal traduttore italiano, un affondo sui versi di «Averno». Anche i grandi eventi tragici sembrano trasformarsi nei suoi versi: forse solo in America è possibile trovare una parola così risoluta e non sentimentale. Forse le viene dalla psicoanalisi, l’abitudine a riflettere nei versi un’intima distanza
Nobel letteratura Dal traduttore italiano, un affondo sui versi di «Averno». Anche i grandi eventi tragici sembrano trasformarsi nei suoi versi: forse solo in America è possibile trovare una parola così risoluta e non sentimentale. Forse le viene dalla psicoanalisi, l’abitudine a riflettere nei versi un’intima distanza
Nulla di svagato nei recuperi del classico, che Louise Glück intreccia strettamente a un presente personale e collettivo, o collettivo perché personale. Esemplare la decima raccolta di poesie, Averno, del 2006 (la prima, Firstborn è del 1968). Da noi si sa cosa sia l’Averno, ma la parola non è comune in ambito anglofono, non ha connotati immediatamente luttuosi, e una nota d’apertura al volume segnala che si tratta di un laghetto presso Napoli dagli antichi creduto ingresso all’oltretomba. Glück non è nuova, del resto, a rimandi classici, come dimostrano i titoli The Triumph of Achilles (1985) e Ararat (1990).
LA MORTE di cui si parla in Averno è sempre tenuta alla luce di un’intelligenza poetica senza cedimenti, che ascolta, dispone parole, esperienze, su una pagina dall’insuperato nitore (ma non asettica, anzi). Forse solo in America potrebbe esserci una parola così pura, non sentimentale, assoluta, risoluta.
Le parole hanno una storia, ma non c’è dialetto, pesantezza e nebbia dell’uso, sono scandite in tutta semplicità e nudità. «Questo è il momento quando vedi di nuovo / le bacche rosse del sorbo selvatico / e nel cielo scuro / le migrazioni notturne degli uccelli».
Così comincia Averno, sinfonia semplice ma poderosa. In italiano è difficile evitare il sonoro endecasillabo finale. L’inglese ha solo: «the birds’ night migrations». Poesia che non sembra essere poesia. Continua: «Mi addolora pensare / che i morti non le vedranno». Entra la prima persona, come farà spesso in seguito senza particolari preamboli. È lei che parla, un io (im)personale: «non riesco a sentire la tua voce / per i gemiti del vento, che sibila sulla terra nuda».
GLÜCK RACCONTA che la psicoanalisi, della quale ha usufruito per curare la giovanile anoressia, le ha insegnato a pensare. E forse a mantenere questa distanza nell’intimo, che non è privato, ma è là fuori. E questo romanzo famigliare introduce ai temi profondi della raccolta: la fanciullezza, la verginità perduta, il matrimonio, il conflitto fra madre e marito, la terra e la morte.
Commossa e asciutta, Averno è una riflessione sulla vita-morte. Nella seconda parte, che Glück racconta esserle venuta più di getto, c’è anche il confronto con un io invecchiato: lei contornata da figli insofferenti: «So cosa dicono quando esco dalla stanza. / Dovrei vedere un medico, dovrei prendere / una delle nuove medicine per la depressione. / Li sento che discutono, sottovoce, come dividere le spese».
La poetessa parla a sé stessa, senza perdere un colpo ancorché fragile agli occhi di altri: «Pensaci: sessant’anni seduta su sedie. E ora lo spirito mortale / che vorrebbe così apertamente, così temerariamente – // Sollevare il velo. / Vedere a cosa stai dicendo addio.»
LA POESIA è, qui, un modo di vedere, e far vedere. Persefone è nel prato, sul laghetto di Pergusa, presso Enna, come cantano Ovidio, Milton e altri. L’esperienza personale illumina ed è illuminata dall’archetipo. Dopo «sessant’anni seduti su sedie», la parola è capace di reggere il confronto col mondo indescrivibile. È molto giusto quanto l’editore ha scritto nell’edizione americana: «Averno è un’estesa lamentazione, le sue lunghe irrequiete poesie non meno incantate perché mancano di risoluzioni e consolazioni convenzionali, non meno potenti perché sono selvagge e dolenti».
La stessa Louise Glück ci ha dato una indicazione su di sé: appassionata di gialli, leggeva mentre cominciava a comporre un libro di Reginald Hill con molti riferimenti ai Kindertotenlieder di Mahler. L’amico poeta Frank Bidart, scorrendo i testi le disse che gli ricordavano appunto quel ciclo di lieder e le propose di darle il cd. Ma Glück, scaramanticamente, non volle, e dunque Bidart le regalò di Mahler Das Lied von der Erde, che Glück confessa di aver ascoltato ossessivamente mentre scriveva. Ecco dunque questi versi: «Canto della terra, / canto della visione mitica della vita eterna…». E i riscontri, ancorché sempre indiretti, potranno continuare.
PRIMA della pubblicazione di Averno, Louise Glück conobbe lunghi anni di silenzio, dal 2001 al 2006, e quel silenzio rivelava una condizione di sofferenza (scriverò ancora?), alleggerita dal rapporto intenso con gli studenti dei suoi corsi di scrittura. Intanto aveva superato la soglia dei sessant’anni. E c’era stato l’11 settembre. Forse non è un caso se la prima poesia della prima sezione di Averno si intitola Ottobre, e se si apre angosciosamente con un senso di perdita di tutte le certezze: «non riesco a sentire la tua voce / per i gemiti del vento, che sibila sulla terra nuda // non mi importa più che suono fa … // com’è il suono non può cambiare cos’è».
Eppure il poeta dice come è il mondo, e così facendo cambia soggettivamente quel che («di fatto») è. Dunque, anche i grandi eventi tragici possono trasformarsi, se detti da una testimone imprescindibile come Louise Glück.
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