Le strane facce di Birmingham
Storie/Un festival multidisciplinare, la mostra sui Black Sabbath e un nugolo di artisti di strada Una scena culturale in ebollizione nel capoluogo delle West Midlands, che ha dato i natali al gruppo di Ozzy Osbourne e Tony Iommi. Qui oltre il 40% dei residenti proviene da paesi extraeuropei. L’intricato e effervescente flusso migratorio ha sollecitato la nascita di band come UB40 e Steel Pulse
Storie/Un festival multidisciplinare, la mostra sui Black Sabbath e un nugolo di artisti di strada Una scena culturale in ebollizione nel capoluogo delle West Midlands, che ha dato i natali al gruppo di Ozzy Osbourne e Tony Iommi. Qui oltre il 40% dei residenti proviene da paesi extraeuropei. L’intricato e effervescente flusso migratorio ha sollecitato la nascita di band come UB40 e Steel Pulse
«Nel novembre 2009 vivevamo a Londra. Decidemmo di recarci a Birmingham per fare un giro in città e in contemporanea osservarne la scena artistica, in quanto sapevamo che si sarebbe svolta una conferenza di due giorni incentrata sul futuro del teatro locale e del West Midlands. Notammo che parte della discussione verteva sull’assenza di artisti e compagnie teatrali europee. Ci venne spontaneo chiedere quando fosse in programma un festival di teatro internazionale, sai veniamo dalla Spagna e da noi rassegne simili ci sono in ogni città del paese. La risposta, con nostra sorpresa, fu che non esisteva nulla di simile. Facemmo notare che per rilanciare l’intera scena teatrale, sarebbe stato importante averne uno, per cercare di creare un punto di contatto tra cittadinanza e artisti inglesi ed esteri. All’incontro partecipavano anche esponenti del City Council, i quali ci risposero in modo entusiasta “…è un’idea fantastica, perché non lo fate?”. Puoi immaginare lo stupore. Rispondemmo che eravamo attori, e che organizzare non era la nostra occupazione. In contemporanea altri artisti presenti, ci offrirono come sede una fabbrica che stavano usando per le loro attività. In un solo pomeriggio ottenemmo il beneplacito delle istituzioni e la location! La sera stessa Isla, Mike ed io ci sedemmo a cena in un ristorante e iniziammo a stendere il progetto». La vita a volte riserva inattese sorprese, come raccontato dal madrileno Miguel Oyarzun, il quale assieme a Isla Aguilar e Mike Tweedle, si ritrovò improvvisamente proiettato in un inatteso futuro. Da quelle idee messe assieme al termine di una giornata convulsa, nacque il Birmingham European Festival, meglio noto come BE Fest e che vide la luce nel 2010.
L’happening culturale pensato dai tre fondatori, successivamente Tweddle abbandonerà lasciando ai due spagnoli l’intera direzione, si presentò da subito con una chiara e netta scelta artistica, volta a valorizzare talenti emergenti provenienti dall’Inghilterra e da tutta Europa, con una modalità ibrida che consentisse l’espressione di arti visive, danza, attività circensi, commedia e musica al fine di coinvolgere diversi tipi di pubblico. Progressivamente col passare delle edizioni, il BE si è affermato come il principale festival inglese e tra i più interessanti del continente. La decima edizione, inserita nella catena di eventi denominata #wheninbrum che include anche il Flatpack Fest ad aprile e il Supersonic di fine luglio, è andata in scena presso il centrale Birmingham Repertory Theatre, comunemente conosciuto come Rep, fra il 2 e il 6 luglio scorso, presentando sedici diverse performance, alle quali si sono aggiunti concerti e dj set, oltre a workshop e incontri con gli artisti impegnati.
DISTANZE RIDOTTE
La riduzione della distanza tra questi ultimi e il pubblico presente è uno dei punti fermi della rassegna, come sottolineano all’unisono i due iberici: «Cerchiamo di portare avanti un continuo contatto tra le parti. Crediamo che aprire il processo di creazione di uno spettacolo, sia un confronto produttivo. Permette di diminuire progressivamente la separazione: bisogna uscire fuori dagli spazi istituzionali, occorre cercare il pubblico e renderlo partecipe. E come artisti e direttori, abbiamo la responsabilità di farlo. Crediamo che non esistano spettacoli per le élite, neanche l’opera lo è. Di contro può essere elitaria l’attitudine che si ha nella creazione e conduzione del gesto artistico, di un teatro, di un festival. Accade quando si crede che le persone non abbiano gli strumenti per comprendere quanto proponi. Al BE siamo convinti che l’arte debba di contro essere accessibile a tutte e tutti e facciamo il massimo per far sì che ciò avvenga».
Intento che si è quotidianamente concretizzato sia nello spazio di discussione del primo pomeriggio, denonimato Feedback Cafè, vero e proprio salotto di libero incontro, che in quello serale durante l’orario della cena prevista esattamente nel mezzo tra gli spettacoli pomeridiani e notturni. Un momento estremamente conviviale svoltosi al centro di una delle arene del Rep e che ha contribuito a dare leggerezza alle esibizioni che nel frattempo si alternavano sul palco.
Ad aggiudicarsi il più importante dei tre premi in palio, il Be Festival Prize, è stato Light Years Away dello spagnolo Edurne Rubio, autore di una rappresentazione ispirata alla ricerca svolta da alcuni membri della sua famiglia durante il regime di Francisco Franco, con l’intento di mappare le grotte di Ojo Guareña nel nord della Spagna. Una narrazione molto evocativa che ha fatto uso in modo sapiente della voce e del buio in sala, muovendosi tra memorie oggettive e speranze personali. L’Audience Prize è andato al duo franco-britannico di Bertrand Lesca e Nasi Voutsas, che con il divertente e agrodolce The End hanno inscenato una lunga e romantica danza imperniata sull’assenza dell’altro nel futuro di loro stessi. La terza piazza con il Mess Prize, è stata assegnata all’attore e regista iracheno ma residente in Belgio, Mokhallad Rasem, autore del video documentario Soul Seekers, in cui racconta il momento di infinita attesa all’interno di un centro di accoglienza per migranti, dove egli stesso per sei mesi ha raccolto testimonianze.
Tra le altre esibizioni in gara, vanno segnalati l’energico e muscolare spettacolo di danza contemporanea Punk? della coreografa tedesca Paula Rosen opportunamente sonorizzato da una band presente sul palco, il divertente One Shot degli acrobati belgi Maxime Dautremont e Foucauld Falguerolles i quali tra asce volanti e altri esercizi circensi hanno regalato leggerezza e buonumore a un folto pubblico composto anche di famiglie e adolescenti, il sognante e visionario Avalanche dell’italiano Matteo D’Agostin già vincitore del premio Ubu 2018 come miglior spettacolo di danza. Molte emozioni sono arrivate anche dalla programmazione esterna al concorso: si è fatto apprezzare l’illusionista e attore londinese Tom Cassani, del quale consigliamo di ricordare il nome, presente con due diversi lavori. Notevole anche Dies Irae: 5 Episodes Around the End of the Species, sessanta minuti scanditi da un angoscioso timer durante i quali, gli attori lasciano tracce di una ipotetica fine del mondo. Il tutto firmato dal collettivo italiano Sotterranei, composto da Sara Bonaventura, Claudio Cirri e Daniele Villa, che così sintetizza: «È un lavoro del 2009 sull’estinzione della civiltà umana, con uno sguardo archeologico e stratigrafico. Grazie alla collaborazione con il teatro Conde Doque di Madrid dove saremo artisti associati per i prossimi due anni, lo abbiamo qui ripresentato con un cast spagnolo».
L’apice del festival è stato raggiunto da A Land Full of Heroes, opera teatrale basata sulla vita della scrittrice romena Carmen-Francesca Banciu. Una messa in scena complessa a metà tra reportage giornalistico, video documentario e rappresentazione scenografica, che partendo dalla caduta del regime di Ceaucescu, si muove nell’esistenza della donna tra vicende personali, familiari e collettive. Il tutto con un dualismo carico di rimandi e fascinazioni delle due attrici sul palco, Banciu e sua figlia. Un toccante ed empatico affresco al femminile, delicato e potente al tempo stesso.
PER ADOLESCENTI
Discorso a parte merita il progetto educativo BE Next, ossia l’impegno della rassegna a coinvolgere adolescenti e giovani compresi tra i quattordici e i diciannove anni che in casa parlino una seconda lingua oltre l’inglese e che provengano dalla città e dalle aree limitrofe. La partecipazione di figli di seconda e terza generazione di migranti nei seminari d’ingresso all’attività teatrale avviene in modo totalmente gratuito e anche questa decima edizione ha visto la messa in scena di un allegro spettacolo di quindici minuti, con protagonisti ben ventisei tra ragazze e ragazzi, le cui origini familiari fanno in buona parte riferimento alle aree geografiche afrocaraibiche, nord africane e sud est asiatiche. Esattamente come i loro pari che sciamano in ogni dove nel Bull Ring, il centro città di Birmingham.
Non sono soli: un brulicare di gente agli angoli delle strade che prima o poi finisce per incontrarsi nell’enorme isola pedonale che partendo dal Rep, prosegue con la Centenary Square, la Library of Birmingham e la Centennial Square, fino a giungere davanti al maestoso Museum & Art Gallery che si affaccia nelle enorme Victory Square, in cui campeggia la statua della regina Vittoria. E se si vuole cercare di entrare a contatto con la quotidianità di Brum, come viene affettuosamente soprannominata la città dagli abitanti, non si può prescindere da questi luoghi. Basta sedersi lungo l’ampia scalinata che chiude la piazza da un lato a osservare distrattamente la folla: lo sguardo, pur se superficiale, permetterà di percepire come e quanto sia composita la popolazione che anima Birmigham. La quale va ricordato essere la seconda città per abitanti dell’intera Inghilterra con oltre un milione e centomila persone, di cui circa il quaranta percento di origine extraeuropea, a conferma della natura cosmopolita della città.
DIALETTO
La multietnica Brum non si smentisce e ci presenta su un palchetto ai piedi della statua della regina, un florilegio di musicisti giovanissimi, lì presenti in occasione di un food festival allestito da una testata giornalistica locale. Ognuno dei volti dei ragazzi racconta di altri continenti, ma al contempo parla e canta con uno smaccato accento «brummie». Perché a Birmingham di certo la musica non manca mai e loro, apprendisti artisti del futuro, sul palco vanno alla grande suonando ogni genere, dai cori di matrice ecclesiale alle ritmiche incalzanti delle brass band, dal malinconico folk alle metriche energiche del rap, fino ad arrivare a un manipolo di adolescenti che con una certa baldanza attaccano con un assolo di armonica lo storico brano The Wizard dei Black Sabbath. Improvvisamente, sembra di fare un passo indietro nel tempo, perché alla destra dei giovani rocker, campeggia l’indicazione per 50 Years: A Major Exhibition.
È lì dal 26 giugno scorso e andrà avanti fino al prossimo 29 settembre la mostra dedicata ai Black Sabbath, curata dalla Home of Metal e allestita all’interno dell’istituzionale Birmingham Museum di cui sopra. Si tratta di un meraviglioso omaggio alla creatura di Geezer Butler, Tony Iommi, Ozzy Osbourne e Bill Ward. I quali sono celebrati in lungo e largo attraverso un approccio multimediale che permette ai visitatori di entrare completamente nella storia della band. C’è spazio per una presentazione con filmati d’epoca della città operaia dal dopoguerra in poi per far comprendere da dove arrivassero i quattro, è stato ricostruito il loro iniziale studio di registrazione con materiale d’epoca, si possono suonare ipotetiche chitarre di Iommi ognuna con il suono originale di allora, si può ammirare una Harley Davidson marchiata Sabbath, perdersi tra vestiario e memorabilia di ogni genere. Preso singolarmente molto del materiale esposto potrebbe sembrare paccottiglia di bassa lega, ma va riconosciuto che l’allestimento in chiave circolare della mostra è davvero esaltante, al punto tale da esortare il visitatore a iniziare da capo, per non perdere strepitosi dettagli come ad esempio il manifesto del film del 1963 diretto da Mario Bava, da cui i ragazzi mutuarono il loro nome definitivo.
Brum, nonostante l’apparente aplomb britannico, riserva sorprese davvero imprevedibili. Seguendo le traiettorie del blues, genere che in città ora non va di certo per la maggiore ma che comunque nella seconda metà dello scorso secolo è stato anima e viscere della locale scena musicale, incontriamo Chickenbone John, al secolo John Wormald. La sua giornata è equamente divisa tra la carriera come one-man band immerso nei suoni Delta e Hill Country Blues e quella di liutaio. Mentre ci racconta le modalità di costruzione delle sue chitarre e cigar-box, abbiamo il tempo per scambiare due chiacchiere lungo i canali che innervano Birmingham. Nonostante lo scenario sia davvero notevole, il nostro conversare non è casuale: attraversando i corsi d’acqua ci avviamo ad incontrare quella che è una vera leggenda musicale da queste parti: Jim Simpson, l’uomo che ha fatto capire ai Sabbath che forse suonando assieme, avrebbero potuto combinare qualche cosa di buono.
IERI E OGGI
Mr. Simpson ad oggi, nonostante la non giovanissima età, è più che mai attivo. È tra i principali animatori del Jazz in Birmingham, elefantiaca kermesse che tra luglio e agosto diventa centrale nella vita culturale cittadina, e inoltre si occupa a tempo pieno della seconda vita della Henry’s Blueshouse, storica serata dedicata ai suoni african american. Parliamo di un happening che durante i Sixties divenne il catalizzatore di una consistente parte del British Blues di allora e che gode di un notevole prestigio. Tra i vari impegni, Simpson ha di recente trovato anche il tempo per scrivere Don’t Worry ’bout the Bear: From the Blues to Jazz, Rock & Roll and Black Sabbath, un libro imprescindibile. Al suo interno sono egregiamente riassunte storie, aneddoti e memorie che lo hanno visto più o meno protagonista dai primi anni Sessanta in poi. Sottolineiamo che la copertina del testo, presenta una meravigliosa foto in cui un giovanissimo e devoto Iommi osserva Muddy Waters con abnegazione totale.
E se quello scatto dice molto, ancora di più sono le parole che ci regala Simpson: un lungo andare e venire tra personaggi minori e maggiori dell’epoca. Tra racconti di quello che accadeva all’interno della band poco prima dell’uscita di Paranoid, passando per gustosi e piccanti retroscena su gruppi poco noti che concorsero comunque alla nascita del nuovo rock, passando attraverso episodi riguardanti Chicken Shack, Rory Gallagher, Robert Plant e mille altri, Simpson sottolinea con risolutezza un concetto che secondo lui era alla base di tutto: «Che si suonasse blues, jazz, ska, r’n’b e rocksteady, va ricordato che non c’era una linea a definire i confini. Ogni band veniva suggestionata e al contempo influenzava le altre». Una verità enorme testimoniata dalle gesta di formazioni provenienti dal bacino delle migrazioni di matrice afrocaraibica, come Steel Pulse, Beshara e UB40, di cui le tracce sono ancora oggi rintracciabili nei multietnici quartieri di Kings Heath e Moseley.
La Birmingham di ieri, capace di produrre nomi altisonanti, pur se tra loro distanti, come Duran Duran, Judas Priest, Godflesh e Fine Young Cannibals, era il risultato di popolazioni in movimento dalle varie aree del Commonwealth per cercare lavoro e opportunità. La Brum di oggi, pur se in modo diverso, continua a mescolare sé stessa e sente pulsare la propria anima nei quartieri esterni al centro, nelle scuole, nello stadio al seguito del Birmingham FC e sui palchi, dove sta forse, forgiando un suono nuovo e vibrante, figlio delle generazioni in arrivo.
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