Tutto nell’anima è immaginale, scriveva Virginia Woolf. E voleva dire che tutte le esperienze che ci accadono, giorno dopo giorno, e che segnano le nostre vite, hanno bisogno non solo di essere vissute ma anche di essere elaborate: ed è per questo che le comprendiamo solo a posteriori. Il fluire di un’esistenza, il suo ritmo interno non sono suscettibili di venir racchiusi in una semplice successione di eventi che possano essere descritti come tali, ma sono semmai una caccia al tesoro: sono una ricerca di senso – che segue il loro accadere, che viene dopo. Perché la vita non ha un senso, di per sé: lo ha solo in sé stessa, in quanto vita che scorre. Da parte nostra, tutto quello che possiamo fare è solo provare a cantarla, a raccontarla – cercando di tenere insieme le sue ineliminabili contraddizioni: il bene con il male, l’incanto con il disincanto, l’illusione con la disillusione. Cercando, appunto, di restituirle un senso che la faccia assomigliare e corrispondere il più possibile al nostro sentire, all’idea che ci siamo fatti di noi.

È DI QUESTO CHE PARLA, al fondo, il bellissimo Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana di Paolo Jedlowski, appena ripubblicato da Mesogea a più di vent’anni di distanza dalla sua prima edizione (p. 272, euro 19): del senso che assume la vita attraverso i racconti che ne facciamo, e delle funzioni che tali racconti assumono nelle nostre vite. Jedlowski è un sociologo, uno dei più autorevoli e noti in Italia, ed è quindi ovvio che il punto di vista adottato da Storie comuni sia innanzitutto quello di un saggio, che si interroga sui rapporti fra la narrazione e la vita quotidiana e sul ruolo della narrazione nella costruzione dei gruppi sociali (come spiega anche Attilio Scuderi nella prefazione). Ma poi Jedlowski è anche più di un sociologo, è anche un narratore a sua volta: e non solo perché frequenta anche i territori della narrativa tout court (come ha fatto nel suo Intanto, edito due anni fa dalla medesima Mesogea), ma perché i suoi stessi testi saggistici sono sempre intrisi di elementi anche narrativi, discorsivi, o perfino intimi e dichiaratamente autobiografici. Del resto lui per primo ne dà atto, nella conversazione con Ercole Giap Parini alla fine del libro: la narrativa schiude alla saggistica orizzonti di possibilità che altrimenti le sarebbero preclusi, le offre un respiro più largo. È come se, nei suoi libri, Jedlowski si sedesse accanto al lettore, e lo accompagnasse nella lettura: quietamente, gentilmente, leggendo insieme a lui. Anche in questo risiede la natura narrativa e discorsiva, oltre che saggistica, della sua scrittura.

LA TESI CENTRALE di Storie comuni consiste nell’affermazione di un inderogabile carattere relazionale di qualunque narrazione, qualunque sia il genere. Non esiste narrazione, sostiene Jedlowski, al di fuori di una relazione con un Tu, con un Altro, per il semplice motivo che non esiste narrazione, a cominciare da quella di sé, che non nasca da un desiderio di condivisione: e nessuna condivisione sarebbe possibile senza un Tu. Poco importa chi sia, questo Tu – che sia presente in carne e ossa davanti a chi narra o che sia anche solo evocato o ricordato, che sia reale o immaginario, o anche solo sognato: raccontare, comunque, è sempre un «portare a compimento la vita mostrandola a un altro». Questo è il cuore pulsante del libro, il suo nucleo potremmo dire morale e perfino politico (al di là di ogni altro dato sociologico): perché se è vero che si vive per raccontarlo, e che il racconto è relazione, la vita stessa potrà dirsi realizzata solo in una dimensione comunitaria, e condivisa.

* La presentazione domani alle 16 a Bookcity con l’autore, Ludovica Danieli e Domitilla Melloni.