Inaugurando la sua nuova formula «NJ Weekender» – un appuntamento in novembre e uno in marzo – Novara Jazz ha fra l’altro godibilmente accostato due importanti esponenti, Jeff Parker e Kahil El’Zabar, di due diverse generazioni dell’AACM, l’«Associazione per la promozione dei musicisti creativi», quasi tutti afroamericani, fondata a Chicago a metà anni sessanta. Classe 1967, Jeff Parker si è affermato negli anni novanta come membro dei gruppi post-rock Tortoise e Isotope 217 e partecipando alle formazioni animate dal cornettista Rob Mazurek e dal batterista Chad Taylor sotto l’intestazione Chicago Underground, una delle esperienze cruciali del jazz più avanzato emerso nell’ultimo scorcio del Novecento. Il solo, la dimensione con cui è in tournée in Europa, è ideale per mettere a fuoco come un chitarrista come Parker, da decenni impegnato in contesti innovativi, sia in effetti legato non a stili chitarristici particolarmente sperimentali, ma a modelli «classici» della chitarra jazz moderna come Charlie Christian, Grant Green, Kenny Burrell. Utilizzando i pedali per avere delle basi – soprattutto dei riff di basso – su cui improvvisare, Parker mostra la sua vocazione alla melodia, alla delicatezza, persino all’intimismo.

Jeff Parker, foto di Emanuele Meschini

BRANI dal suo recente album Forfolks e da The New Breed del 2016, un paio di composizioni di Monk (Ruby My Dear), una leggiadra resa di Super Rich Kids di Frank Ocean. Set delizioso, anche più bello di quello al Jazzfest di Berlino una decina di giorni fa. Se Jeff Parker è chiaramente un timido, Kahil El’Zabar, batterista e vocalist classe 1953, un veterano dell’AACM, è un estroverso. Canta a bocca chiusa o fa vocalizzi con una impronta da cantante soul ma in una chiave espressionista, percuote il cajon, pizzica la kalimba, alla batteria è fluido, dinamico e quando vuole molto potente. Passa da atmosfere rarefatte, che fa crescere e stira sapientemente fino all’estremo limite, a brillanti brani di impianto hard bop. Con lui Corey Wilkes, trombettista formidabile, tecnicamente ferrato ma anche morbido, sostanzioso ed effervescente negli assoli; Alex Harding, altro veterano, al sax baritono; e Justin Dillard, strabiliante nel tirare fuori, con grande disinvoltura e pertinenza, accompagnamenti di ogni genere dalla sua tastiera: organo, basso, chitarra jazz… Fra i brani – dall’album A Time For Healing, uscito quest’anno – Resolution, secondo movimento di A Love Supreme di Coltrane, ma fa capolino anche Get Up Stand Up di Marley. Quasi due ore e mezzo di concerto: loro si divertivano come matti, il pubblico non li avrebbe più lasciati andare via.