C’era una volta…la fiaba animata raccontata con voce calda e soave, lineare e semplice seppur dettagliata e educativa. L’innocenza ritrovata e ribadita, dove la tenzone fra buoni e cattivi senza sfumature viene ribaltata a favore della vittima, dell’oppresso, del giusto, dei giovani fino all’atteso e mai negato lieto fine. C’era e c’è ancora e Michel Ocelot se ne riconferma maestro indiscusso con Le Pharaon, le Sauvage et la Princesse. L’incantevole film animato dell’autore di Kirikù sintetizza al meglio il suo immaginario visivo e orale francofono, fortemente speziato di note e colori africani e orientali. Tre anni dopo Dilili a Parigi, Ocelot ritorna alle fiabe corte raccolte e alle fantasie tradizionali, seppur rivedute, improntate sulle fantastiche figure monarchiche dal volto umano viste in Principi e principesse. Ne riprende la voce narrante fuori campo e l’iconografia merlettata in silhouette che ormai costituisce uno degli stili Ocelot che nel nuovo film si almagama con gli altri suoi stilemi a ispirazione arabeggiante e africana.

La cornice iniziale fa da collante ai tre contes, ognuno diversificato per epoca e stile grafico, ma coeso da un medesimo, pur sfaccettato, approccio autoriale. Il film apre su uno sfondo industriale contemporaneo, con al centro la distinta narratrice in tuta (forse di lavoro) azzurra di fronte a un pubblico indistinto nel controluce, ma dove si individua un uomo con casco di protezione e un altro con tradizionale basco francese. Forse pausa dal lavoro o momento che interrompe il ritmo produttivo metropolitano, rappresenta comunque uno spazio ritagliato per fermarsi ad ascoltare, a legittimare l’importanza del racconto e della fantasia. La Narratrice ordisce la sua tela unitaria ma episodica, garantendo un delicato equilibrio fra frammentazione e compattezza sia delle storie che degli uditori. Questi chiedono di tutto e ognuno vuole la sua storia: ambientata in Egitto, Sudan, Marocco, Auvergne, con protagonista donna, no uomo, anzi entrambi, che si amano, però ci siano armate, basta massacri, ci siano una palla rossa, una corona, cammelli, principesse… Vada per più storie, «una sola mi annoia» afferma la Narratrice (e tramite lei Ocelot), affermando così l’approccio pluralistico e ribadendo a più riprese che è il suo racconto con stile e modo personalizzato. Ovvero di autore non omologato.

Si inizia con Il Faraone, la storia più antica ambientata nel Kush in Sudan quasi tremila anni fa (liberamente tratta da La Stele di Songe di Napata, VII secolo a.C.). Stilizzate e eleganti, dove le foglie d’albero oscurate si scontornano al chiaro di luna, le figure bidimensionali di profilo, come pitture colorate su pareti di suggestione antico-egiziana, predispongono innanzitutto visivamente alla storia d’amore fra Nasalsa e Tanwekamashi, fra passione negata e prove di forza militare (qui senza colpo ferire, ma stabilita con dialogo e deterrenza). La vera lotta semmai è contro la miseria e l’ignoranza, con l’aiuto delle divinità da Osiride a Amon, ciascuna con la stessa risposta: «Chi vivrà, vedrà». Anche perché, molto laicamente il nostro destino è segnato dal caso e dalle nostre decisioni.

Il bel Selvaggio, secondo capitolo della trilogia, ci porta in Alvernia nel castello del despota-padre il cui figlio represso diventerà un Robin Hood francese. Raffigurati da silhouettes ritagliate su sfondi colorati, i diversi personaggi fra cui anche un prigioniero liberato e sua figlia compongono un quadro popolare che rovescia il trono per vie pacifiche ma determinate. Immancabilmente trionfa l’amore, ma anche la politica dal basso, l’azione diretta, il dialogo e il rifiuto della pena di morte (sulla forca il boia prende il posto del condannato).

Infine l’episodio più affascinante, La Principessa delle Rose e il Principe delle Frittelle, appaga pienamente lo sguardo con un décors ricco e dettagliato che richiama le ambientazioni migliori di Azur et Asmar. Pareti e pavimenti mattonellati dagli arabeschi floreali minuziosamente dettagliati arricchiscono lo sfondo sontuoso su cui si inscena un’ulteriore storia d’amore contrastato. Senza farli pesare, c’è un sottotesto ricco di riferimenti: innovazione e conservazione, multiculturalismo e multietnicità, il lavoro, la ricerca di una terza via, essenza e apparenza. Ocelot incastona le storie di colori, costumi, decorazioni, sapori, musica (originale di Pascal Le Pennec) come fossero gioielli. E alla fine si può vivere felici e contenti.