Quale Consiglio Superiore della magistratura? Quali rapporti tra l’ordine giudiziario e le altre istituzioni? Quali modelli di giudice e di pubblico ministero? Ruota attorno a queste domande l’editoriale dell’11 luglio scorso di Livio Pepino sul manifesto. Nel commento al voto per il futuro organo di autogoverno dei magistrati, si denuncia la crisi di una istituzione centrale del nostro sistema democratico. Una crisi alla base della progressiva perdita di autonomia dei magistrati e della crescente disaffezione per il proprio ruolo istituzionale, con ripercussioni negative sulla tutela dei diritti e sul controllo di legalità verso i poteri forti.

Si tratta di opinioni severe di chi, sin dagli anni settanta, ha combattuto la diffidenza verso la costituzione, la solidarietà corporativa e le gerarchie giudiziarie, partecipando alla stagione del ripensamento democratico della giurisdizione. Ma, se certe biografie spiegano la forte sensibilità verso ogni segnale di cedimento per le conquiste del passato, la severità dell’analisi ci consegna una «immagine deformata» della realtà, suscettibile di essere strumentalizzata da chiunque intenda aggredire l’autonomia della magistratura.

Prendiamo ad esempio la tesi secondo cui la magistratura di oggi sarebbe timida coi potenti. È smentita dalla cronaca quotidiana. Da Reggio Calabria a Roma, da Milano a Venezia, da Napoli a Genova, da Torino a Palermo, ogni giorno partono processi a imprenditori di alto rango, faccendieri, uomini delle istituzioni di diverso colore e provenienza. È accaduto anche negli ultimi giorni con ex ministri, ex presidenti di Regione, accusati di gravi ipotesi di corruzione o di complicità con gruppi mafiosi. Semmai, su criminalità economica e istituzionale, il Csm dovrebbe fare di più per assicurare sui «fronti caldi» risorse adeguate. Ma ciò non toglie che la «diffusività» della risposta giudiziaria rispetto alla «criminalità dei potenti» sia ormai una costante del sistema, nonostante le leggi vigenti non facilitino il compito. Quella «diffusività» pervade l’impegno quotidiano di tanti da molti anni. Non è la prerogativa di una élite. E non basta il verdetto assolutorio di una corte d’appello, ancorché importante, per sostenere che il «clima è cambiato».

Anche sulla crescita del carcere non possiamo cogliere solo le defaillances della attuale magistratura. Certo, anni di «pacchetti sicurezza», che affidano alla detenzione l’unica risposta al disagio sociale, hanno lasciato traccia nelle «teste» di tanti giudici. Ma, dopo le pronunce della Corte Europea sul «sovraffollamento», nella sostanziale afasia del parlamento, la magistratura si è subito assunta le sue responsabilità. Si pensi alla circolare della procura di Milano che limita ai reati più gravi la prerogativa di «chiedere» la custodia cautelare. O ancora, alle ordinanze dei tribunali di sorveglianza di Venezia e Milano con le quali, nell’affidare ai giudici costituzionali le norme in tema di sospensione della pena, si sollecita la soluzione delle «liste di attesa» quando le strutture penitenziarie non sono in grado di garantire standard minimi di rispetto del diritto umanitario. Sono soluzioni frutto della elaborazione e delle esperienze di tanti. D’accordo, non saranno decisive per il sistema. Ma attestano una sensibilità sconosciuta su altri versanti istituzionali. Teniamone conto.

Dagli sviluppi dello scontro in atto alla procura di Milano, Pepino coglie forti segnali di debolezza del Csm. Il caso avrebbe fatto esplodere le criticità della «gerarchia nelle procure» introdotta dalla «riforma Mastella», nell’inerzia dell’organo di autogoverno. Al di là del «caso Milano» e della sorprendente tempistica della genesi del conflitto, il prossimo Csm dovrà chiarire i rapporti tra capi e pubblici ministeri. Va contrastata l’idea di affidare a un pugno di procuratori della repubblica la fisionomia della giustizia penale di un paese. Il principio gerarchico è legge e come tale deve rispettare la Costituzione. Può essere una scelta organizzativa in grado di evitare «solitarie fughe in avanti» e di garantire uniformità degli orientamenti investigativi e giurisprudenziali. Non può, però, azzerare l’autonomia del singolo sostituto e neppure trasformarsi in acritica accettazione delle decisioni di un capo suscettibili anche di procurare danni irreparabili alle indagini. Su questo, il prossimo Csm prima di pronunciarsi dovrà «ascoltare» capi, aggiunti e sostituti di procure differenti per dimensioni e peculiarità territoriali, al fine di individuare la tipologia dei contrasti più frequenti e le modalità più trasparenti per la loro risoluzione.

Oggi il vero rischio è limitarsi alla critica per come sono le cose, piuttosto che lavorare per come potrebbero essere. E allora le sfide del prossimo Csm riguardano la «credibilità complessiva» del servizio giustizia. È inaccettabile «girarsi dall’altra parte» quando per un furto nel supermercato si arriva a condanna irrevocabile in otto mesi, a fronte di processi per corruzione in atti giudiziari che si concludono con una dichiarazione di prescrizione magari per via dei difetti organizzativi di un tribunale; quando la valutazione del magistrato si preoccupa solo di «contare» ciò che produce senza sforzarsi di «pesarlo»; quando il procedimento disciplinare dei magistrati è una «tigre di carta» nei confronti delle condotte opache. Su questi versanti il Csm dovrà intervenire, andando oltre i consueti compiti di «alta amministrazione». Dovrà riappropriarsi di un ruolo guida sui grandi temi della giustizia italiana con idee e proposte anche sugli annunciati progetti di riforma.

Come altre componenti della società, la magistratura sta cambiando. Al suo interno convivono idealità, approcci professionali e culturali diversi anche in ragione della estrazione generazionale. È la ricchezza dell’istituzione. Ci sono ancora tante energie positive che convivono con le criticità segnalate da Pepino. E non riguardano solo una élite. La missione del prossimo Csm sarà di non deprimere la passione e l’impegno civile di tanti giudici per una società più giusta.