Cultura

Le sculture solitarie

Le sculture solitarie/var/www/ilmanifesto/data/wordpress/wp content/uploads/2015/02/03/giovanni paganin nello studio di via tortona con una delle sue ossesse fine anni ottanta foto walter mori

Mostre Giovanni Paganin alla Fondazione Corrente di Milano. Un percorso solitario in cui ogni opera testimonia un valore civile del fare arte

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 4 febbraio 2015

In due punti del capitolo dedicato a «Corrente», Duilio Morosini nel suo fondamentale L’arte degli anni difficili (1928-1944) evoca in un elenco di artisti esposti nella galleria milanese lo scultore Giovanni Paganin (1913 – 1997). La margherita di nomi sfogliata dal critico goriziano sulle presenze nella rivista, e poi galleria milanese, si chiude con l’ouverture alla monografia testoriana dedicata proprio allo scultore di Asiago, alla vigilia della sua massiccia presenza alla Biennale di Venezia del 1964. In quel periodo s’innalzano ai vertici dell’arte mondiale la Pop Art, il cinema underground, la nouvelle vague e la musica dei Beatles: insomma, la riscossa della gioventù non più bruciata dalla guerra. E soprattutto è l’America, che anche quando è «altra», non manca di far sentire tutto il suo ingombrante peso. Cambiamenti di posizioni che non intaccarono il rigore morale di Paganin, il suo voler dare all’arte un senso politico e civile che guardasse sempre all’uomo.

Così, in catalogo i dati si incrociano rapidamente nel ricordo filiale di Patrizio che consegna del padre il ritratto più veritiero:«Al successo critico manca quello di mercato che mio padre non cerca, preferendo una ricerca solitaria e testarda, un’indipendenza orgogliosa dalle leggi del mercato, che peraltro paga di persona». I «file» raccolti sembrano essere la miglior introduzione possibile a Giovanni Paganin. Il grido della scultura (fino al 27 febbraio), mostra che la Fondazione Corrente di Milano dedica, per la cura di Giorgio Seveso e Patrizio Paganin, a uno dei suoi figli prediletti.

Nel percorso, troviamo documenti, lettere, fotografie, disegni (quasi una contro-officina del suo lavoro con i tardi e abbacinanti olii dedicati alla Cacciata dal Paradiso) e, soprattutto, una serie di sculture di piccole e medie dimensioni, tra cui spiccano – tra le materne figurine anonime – le teste di Duilio Morosini (forse il critico che più lo comprese letta anche una lettera a lui indirizzata che illumina non poco l’esposizione) e quella di Paganin stesso, in un autoritratto del 1938.

È quasi un ritorno a casa per un artista che seppe collegare la scultura tardo-ottocentesca italiana con le maggiori espressioni artistiche del ’900, già storicizzato nelle avanguardie istituzionali e nei successivi richiami all’ordine, sebbene l’adesione a Corrente chiarì l’approdo a un antifascismo d’origine esistenziale. Paganin riuscì a non perdere la lezione di Medardo (quei «gangli di materia ferita» diceva Testori) e a ripensare, tra lacerazioni e dubbi, le riflessioni teoriche di Arturo Martini sulla «lingua morta» della scultura, resistendo alle facili sirene ludiche sia del post-dadaismo sia delle post-avanguardie concettuali degli anni Cinquanta e Sessanta.

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