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Le Satire di ariosto tra abbozzi e dubbi editoriali

Le Satire di ariosto tra abbozzi e dubbi editorialiDosso Dossi, Sapiente con compasso e globo, 1520-’22 ca., Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara

Classici italiani Le Satire inscenano una serie di quadretti domestici pieni di autobiografia e autoironia, nel segno di Orazio: la nuova edizione per Storia e Letteratura, a cura di Emilio Russo, è frutto di un lavoro collettivo sugli autografi

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 8 marzo 2020

L’edizione critica delle Satire di Ariosto, pubblicata nel 1984 per le cure di Cesare Segre, «invogliava» Gianfranco Contini a intraprendere uno «scrutinio» delle varianti d’apparato del tutto analogo a quello affidato ad altro celeberrimo elzeviro (Come lavorava l’Ariosto) poco meno di cinquant’anni prima; con un dovuto omaggio d’apertura: «bisogna premettere, per compiere la simmetria, che testo e commento delle Satire si fondano in definitiva su una base ancora dovuta al Debendetti, anche se radicalmente rivista e arricchita dal nipote che regge degnamente la cattedra romanistica già da lui illustrata». Santorre Debenedetti, Gianfranco Contini, Cesare Segre: la rievocazione della nobile schiatta di accademici spiriti magni incute timore. Va dunque accolto con curiosità e attenzione lo slancio generoso che ha spinto un gruppo di studiosi ben attrezzati a rimettere mano agli autografi del grande poeta ferrarese condensando il proprio impegno nella nuova edizione delle Satire (Ludovico Ariosto, Satire, a cura di Emilio Russo, Edizioni di Storia e Letteratura «Biblioteca Italiana Testi e Studi», pp. 400, € 30,00).
Com’è noto, l’opera si dipana tra autobiografia e autoironia attraverso una serie di quadretti domestici dai toni moraleggianti, distesi col metro caro della terzina, ma spesso mediati dal filtro della fonte classica, segnatamente Orazio. E così il poeta ci ammannisce consigli su come scegliere la moglie, parodiando il dantesco ‘Chi fuor li maggior tui?’ («Di vacca nascer cerva non vedesti, / né mai colomba d’aquila, né figlia / di madre infame di costumi onesti»), dietro cui occhieggia l’Orazio dei Carmina (IV, 4, 29): «neque imbellem feroces progenerant, aquilae columbam»; oppure ripropone il trito elogio della vita semplice e riparata, contenta del poco che offre le mensa domestica («In casa mia mi sa meglio una rapa / ch’io cuoca, e cotta s’un stecco me inforco, / e mondo, e spargo poi di acetto e sapa, / che all’altrui mensa tordo, starna o porco / selvaggio;»). Acetto, sì, che alcune edizioni cinquecentesche raddrizzarono indebitamente in aceto, perché uno dei nodi più intricati da sciogliere lavorando su Ariosto è proprio quello della lingua: la necessità di datare e interpretare correttamente la revisione testuale e linguistica cui, come nel caso del Furioso, l’autore sottopose anche le Satire.

Bembo e la prima grammatica
La vicenda delle revisioni ariostesche incrocia infatti una data cruciale per la storia della nostra lingua allorché, nel 1525, Pietro Bembo diede alle stampe la prima importante grammatica dell’italiano: le Prose della volgar lingua. Bembo fondò la propria norma sui modelli sommi del Trecento: Dante, Petrarca e Boccaccio, e in particolare sugli ultimi due. Si trattava di autori che esibivano una costanza morfosintattica tale da renderli facilmente riproducibili per chi, non toscano, aspirasse ad avere un modello letterario imitabile. La scelta fu vincente. Così facendo però il classicismo del Bembo – le Tre Corone divennero, come Cicerone e Virgilio per il latino, dei veri e propri classici della lingua volgare – determinò una sostanziale cristallizzazione dell’italiano che rimase a lungo lingua eminentemente letteraria, ed è ciò che permette a tutti noi oggi, con l’ausilio di un buon commento, di leggere e capire senza troppi patemi, la Commedia o il Decameron. Un ferrarese come Ariosto scontava la difficoltà di imparare la lingua letteraria un po’ come una lingua straniera: poco avvezzo a pronunciare le consonanti doppie o a riconoscere i dittonghi, poteva esitare tra le forme acetto e aceto, o tra dissegno e disegno; e se riusciva a recuperare fuoco per il più familiare fogo, rischiava di ortopedizzare poco in un iper-toscano puoco, e via discorrendo. La revisione del Furioso e delle altre opere di Ariosto passa anche attraverso queste esitazioni: le carte autografe infatti ondeggiano continuamente tra abbozzi, correzioni, giunte, cassature e ripensamenti; esibiscono spesso incertezze di carattere linguistico delle quali proviamo a misurare i gradi di maturazione.
Il quadro si complica se l’autore interviene su manoscritti di lavoro esemplati da copisti di professione. Dobbiamo lo scioglimento di questi quesiti alla lunga fedeltà ariostesca di Cesare Segre che, pur muovendo dalle acquisizioni fondamentali del Debenedetti, vi si applicò con perizia filologica senza pari mettendo ordine tra materiali che avrebbero scoraggiato chiunque. Naturalmente, in questo continuo andirivieni tra le carte ariostesche anche Segre dovette essere còlto da qualche dubbio, alimentato talvolta dal rinvenimento di nuove testimonianze. La possibilità, oggi, di fruire di riproduzioni fotografiche ad alta definizione permette di esaminare autografi e copie con maggior profitto e di precisare, in qualche caso, il lavoro del grande filologo. Alcuni frutti di questa indagine si condensano nel saggio introduttivo di Simone Albonico (Verso un nuovo testo delle Satire di Ludovico Ariosto) che ripassando il fondamentale manoscritto F (Cl. I B della Biblioteca Ariostea di Ferrara, apografo con correzioni autografe di Ariosto) restituisce alla mano dell’autore un discreto manipolo di lezioni e apre la porta a una migliore suddivisione delle responsabilità. La revisione di Ariosto su F non fu però sistematica; rimasero sul terreno forme come mattin o preposizioni articolate scempie del tipo a la, a lo alle quali siamo certi Ariosto preferisse matin, alla, allo e che Segre ristabilì a testo. Operazione delicata su cui ragiona Luca D’Onghia (Qualche appunto sulla lingua delle ‘Satire’), additando il duplice rischio da un lato di produrre un testo che l’autore mai avrebbe voluto vedere, dall’altro di ridurre la «filologia a chirurgia plastica dalla quale proprio Segre ha messo in guardia».

Manuzio, Giolito e il ms. T
I dubbi editoriali delle Satire si ripresentano identici nella vicenda compositiva dei Cinque Canti, «quel poco di giunta al mio Orlando furioso» (così in una lettera a Mario Equicola del 1519) cui il poeta lavorò a più riprese fino ai tardi anni venti del Cinquecento. La tradizione testuale si affida a tre testimoni: la stampa veneziana dei Manuzio (1545), la concorrente dei Giolito (1548) e il manoscritto siglato T (Biblioteca Ariostea, Cl. I 706) da ricondurre in ultima analisi allo scrittoio dell’Ariosto. Ancora a Segre dobbiamo la prima edizione criticamente sorvegliata: secondo Segre stampe e manoscritto derivavano in via indipendente da un codice rivisto dall’Ariosto i cui interventi però erano stati recepiti in modo difforme producendo versioni in più punti divergenti. L’edizione Giolito mostrava inoltre un testo più completo e, ad avviso di Segre, più vicino alle abitudini linguistiche dell’autore, almeno all’altezza cronologica alla quale i Cinque Canti si immaginano rielaborati. Ariosto adotta sostanzialmente tutte le innovazioni messe in campo nell’ultimo stadio elaborativo delle Satire e in alcuni casi pare spingersi a valle della norma del Bembo (sostituisce tosto a presto, dietro a drieto; espressioni del tipo lo scoglio a il scoglio; mentre contro il bembesco io amava resiste ancora l’imperfetto io amavo, che a noi ritornerà con l’aiuto del Manzoni). Tutta la complessa questione viene ora affrontata in modo scrupoloso nell’edizione critica e commentata dei Cinque Canti prodotta da Valentina Gritti (Lodovico Ariosto, Cinque canti. Edizione critica, introduzione e commento a cura di V. G., Padova, Libreriauniversitaria.it edizioni, pp. 540, € 45,90). Diversamente da Segre, Gritti ipotizza che la stampa Giolito sia figlia di quella dei Manuzio: il curatore, il celebre poligrafo Lodovico Dolce, la integrò con materiali provenienti dallo scrittoio di Ariosto e ne raddrizzò la lingua nel senso di una più piena adesione alla norma bembesca. Il manoscritto T invece conserverebbe tratti linguistici più genuinamente vicini alle abitudini dell’autore e andrebbe dunque seguito, a norma della filologia di matrice anglosassone, per gli aspetti di carattere grafico-formale. Alla proposta appena avanzata Ida Campeggiani (L’ultimo Ariosto Dalle ‘Satire’ ai ‘Frammenti autografi’, Pisa, Edizioni della Normale, pp. 496, € 28,00) ne affianca una complementare secondo cui il rimaneggiamento linguistico operato da Dolce non sarebbe così invasivo come ipotizzato e d’altro canto alcune delle lezioni alternative ritenute frutto della sua revisione nasconderebbero invece varianti attribuibili ad Ariosto stesso.
Di più, il manoscritto T, la cui trascrizione si farebbe risalire a Giulio di Gian Maria Ariosto, sembra esibire tratti linguistici arcaici poco compatibili con la lingua di Giulio così come emerge dalla sua documentazione autografa; tali tratti andrebbero dunque ascritti all’opera del copista e non costituirebbero arcaismi ariosteschi. Ci si muove, insomma, sul filo del rasoio: i dati sono spesso così complessi e le questioni così minute che non sempre è possibile approdare a una soluzione del tutto condivisa. La strada però è tracciata, pede certo. Debenedetti, Contini e Segre, avrebbero sorriso compiaciuti.

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