Non so in quanti si fossero accorti, nel 1974, dell’uscita di La rosa in mano al professore, l’enigmatico volumetto firmato da un padre cappuccino svizzero allievo di Contini, Giovanni Pozzi (da Locarno), per le Edizioni universitarie di Friburgo. Pozzi aveva una sua notorietà tra gli specialisti di letteratura a causa della frequentazione di territori non propriamente canonici: Ermolao Barbaro o l’Hypnerotomachia Poliphili. Forse il suo interesse più canonico – è tutto dire – era stata la celebrata edizione delle Dicerie sacre del Marino nell’austera collana dei «Classici italiani annotati» di Einaudi diretta proprio da Contini. Ma, ecco, non più di questo, rispetto alle star della voga tutta teorizzante che allora era sulla cresta dell’onda: Segre, per dire, aveva già alle spalle I segni e la critica, e nel 1974 esce niente di meno che Le strutture e il tempo.
Il titolo di quel volumetto, remoto come la sua rosa, era accattivante; e la stampa, quando l’avremmo vista, sarebbe stata giudicata di una sua eleganza, a partire dalla copertina cilestrina o quasi verdolina triplicemente riquadrata in rosso con caratteri rossi per il medesimo titolo («non a caso», si sarebbe detto allora) e passando ai caratteri piuttosto minuti sulle pagine ampie e vagamente «fuori formato», lasciate intonse. Per averne notizia e procedere all’avventuroso acquisto si dovette aspettare che dell’esistenza del libro giungesse avviso: che pervenne da qualcuno del circolo di «Strumenti critici», forse Avalle, l’autore dei famosi (oppure famigerati e comunque profetici dello strutturalismo a venire) Orecchini di Montale, che ebbero l’avallo – sia pure critico – di Giacomo Debenedetti al momento di confezionarne un volumetto per le celebri «Silerchie» del Saggiatore.
Debenedetti c’entrava ora col titolo di Pozzi, e lo aveva anzi ispirato, come rammenta adesso la quarta di copertina dell’inattesa ma benvenuta ristampa del volume (La rosa in mano al professore, a cura di Davide Colussi per Quodlibet, pp. XXX-227, € 22,00). Nella Commemorazione del De Sanctis (1934) Debenedetti aveva scritto: «Non so se nessuno abbia mai osservato che il professor De Sanctis cammina attraverso i secoli centrali della letteratura italiana, attraverso quei secoli che più drammaticamente impegnano le sorti del suo ideale – cammina, dico, con una rosa in mano. È la rosa lanciata nella nostra poesia da Lorenzo il Magnifico e da Agnolo Poliziano (…) e prima di andare a morire tra le artefatte meraviglie del Marino (…), questa rosa viene trasmessa all’Ariosto (…) e affidata al Tasso (…)». Concludeva Debenedetti: «Al De Sanctis è bastato il vario modo di guardare questa rosa per fare la storia dell’ottava: per riassumerci, sul registro musicale, il ritratto estetico dell’arte attraverso i secoli».
Si è citato a lungo perché è una pagina che non si smette di ammirare, dal momento che coabitano in essa i due nomi di De Sanctis e di Debenedetti; e perché c’è anche il nome del Marino che, eclissato a lungo dai banchi dei librai e molto a lungo assente dai cataloghi, stava di nuovo tornando, in doppia edizione addirittura: negli «Scrittori d’Italia» di Laterza per le cure solitarie estrose e conservative di Marzio Pieri, in due volumi del 1975 e del 1977, a cavallo dei quali anni e volumi, nel ’76 si assise l’edizione curata e controllata dal padre Pozzi (insieme a una società di collaboratori) per i «Classici Mondadori», nel piano di un tutto Marino rimasto a quel primo volume: sia pure in due tomi in solido cofanetto e di conseguente solido prezzo (restato tale nella solenne ristampa rivista procurata da Adelphi).
Il secondo di tali tomi (novecento pagine) era dedicato al commento del poema, che in nelle annotazioni univa alla semiotica di maniera strutturalistica un impianto solidamente erudito (o viceversa, variamente intrecciando). In più, un’introduzione che parve agli studenti d’allora un eccezionale punto (o momento) di condensazione di qualche milione di pagine di narratologia, che vagavano minacciose per i cieli della teoria come asteroidi impazziti. Tutto da discutere, ma c’era: arduo, rigoroso e severo, ma da valere la scalata, almeno per vedere, arrivati in cima, che cosa c’era da prendere e che cosa da lasciare, come può capitare per un’attrezzatura sperequata (per eccesso) rispetto alla bisogna.
La rosa in mano al professore, letto dopo l’introduzione e il commento all’Adone, sulla scia di quella scalata, ne pareva, dal punto di vista teorico (ma anche pratico, empirico) un fratello gemello. Diciamo pure che sembrò, dopo quel titolo accattivante, e dopo i titoli ugualmente accattivanti di taluni capitoli («La rosa di mano in mano» e perfino un richiamo allusivo, con «L’ottava in forma di rosa», al libro di Pasolini, che ovviamente non c’è come non c’è la poesia di Fortini, né ci sono le spine e le rose tra i due intercorse), diciamo pure che sembrò un libro piuttosto «spostato» rispetto al fascino attrattivo del titolo: però aveva una chiave di accesso scoperta la quale tutto diventava se non proprio agevole, certo di minore difficoltà.
Era un libro che andava letto dalla coda. Tralasciando – o gettandovi un’occhiata fuggevole – l’indice degli autori, già molte tracce delle intenzioni e dei sentieri e delle siepi in fiore forniva l’andare su e giù nell’indice delle cose notevoli; e poi, sempre andando a ritroso, «Il dossier della rosa», ovvero il repertorio contenente la schedatura degli autori della rosa, per dir così, che erano stati di supporto alle persuasioni, al ragionamento e alla teoria del dotto padre; infine, ultima barriera o primo accesso, la crestomazia contenente una scelta dei brani risonanti a vario titolo nello studio, a suo sostegno.
Questa lettura retrograda, in fondo, non era che ripercorrere la costruzione del libro così come l’aveva presumibilmente vissuta il suo autore. Che l’aveva sviluppata tramite una prosa oscillante tra il modello manzoniano e qualche preziosismo spinto al punto da sembrare un’incertezza stilistica, come succede talvolta a chi una lingua l’abbia imparata sulle grammatiche o sui grandi libri invece che nelle pratiche (così certo non era, e dunque deve trattarsi di preziosismi).
Ma certe immagini si fermarono: il professor De Sanctis nero nel suo stiffelio, di pochi anni più grande dei suoi primi e più antichi allievi; l’erbario pietoso del finale, una pagina che è la sintesi autobiografica del libro e della figura di Pozzi: «Intanto il professore, rimasto in camicia, è tornato verso il fondo del giardino ai piedi del ceppo dove fiorì la rosa del poeta. E raccoltine i petali che infioravano tristemente il bel pratello, li ha compressi fra candide veline, perché ricordino nello spettro disseccato l’antico onore. E chiede per ricomporli la pietà di un erbario».
Però il libro era tutt’altro: un’inchiesta tematica e topologica della figura della rosa tra Quattro e Seicento: un derivato particolarissimo del grande libro di Curtius sulla Letteratura europea e il Medio Evo latino poco prossimo, di contro, alle accensioni stilistiche di Spitzer (questo e altro ora ricostruisce la preziosa introduzione di Colussi, compresi alcuni tratti del rapporto tra Pozzi e Carlo Dionisotti), avvertite poco più che come una risultanza idealistica.
Se dunque, in generale, desta meraviglia – ma anche reca conforto – che un libro di critica torni dopo cinquanta anni, tanto più se si tratta di un libro così connotato dal suo tempo, meno meraviglia e ugual conforto arriva dal constatarne la resistenza per qualità: evidentemente certi segni del tempo sanno diventare eleganze permanenti; che, nonostante quanto si poteva credere, non sono destinati a passare di moda, vuoi perché si tratta di documenti importanti, vuoi perché si tratta di piccoli classici, di quelli che fanno la nervatura reattiva delle lettere e del modo di pensare alle lettere.