Cultura

Le rinnovate ragioni del diritto

Le rinnovate ragioni del diritto – Enrico Natoli

Luigi Ferrajoli Due felici e rigorosi saggi del filosofo italiano affrontano la crisi del costituzionalismo, indicandone una via di uscita. Che sottovaluta però le forme di autogoverno espresse dai movimenti sociali sia a livello nazionale che sovranazionale

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 2 novembre 2013

La modernità politica è animata da una grande fiducia nell’artificial reason, come la definiva Thomas Hobbes, nella capacità cioè di creare artificialmente quelle condizioni di una vita ordinata che, in natura, non si darebbero. Il diritto è il parto più significativo di tale ragione artificiale: frutto di convenzioni e patti, la sua aspirazione è imprimere il proprio segno costruttivo sulla realtà sociale, modellare i rapporti, edificare l’ambito della coesistenza civile. Il lavoro teorico di Luigi Ferrajoli, filosofo del diritto tra le voci più autorevoli anche nel dibattito pubblico non specialista, può essere considerato un lungo, attento e tenace atto di fedeltà neoilluminista al progetto moderno: un’impresa fondata sulla convinzione che il diritto, se ben affilato dalla ragione, dalla precisione linguistica, dalla coerenza logica, può essere lo strumento più potente di cui può disporre una politica del progresso e dell’emancipazione umana. Di Ferrajoli sono ora in libreria sia l’ultima importante messa a punto complessiva La democrazia attraverso i diritti (Laterza, euro 22, pp. 285) sia un’animata e chiarificatrice intervista/discussione con Mauro Barberis (e con la collaborazione di Giorgio Pino), Dei diritti e delle garanzie (Il Mulino, euro 15, pp. 190).

La bilancia costituzionale

Già la struttura del nuovo libro è una esplicita dichiarazione della fiducia nelle capacità politiche e progettuali della teoria giuridica: alla prima parte, dedicata alla chiarificazione del modello teorico, segue la seconda, esplicitamente dedicata al progetto politico. Il modello teorico proposto è quello di un ampio costituzionalismo garantista. Il garantismo nasce evidentemente sul terreno penale (e Ferrajoli ricostruisce, nel dialogo con Barberis, gli anni delle battaglie contro la legislazione di emergenza, in pagine che andrebbero meditate in tempi in cui anche a sinistra gli appelli alle virtù taumaturgiche del diritto penale non smettono di trovare troppo facile ascolto): ma Ferrajoli ne amplia il significato sino a ricomprendere l’intero arco delle garanzie dei diritti costituzionalmente stabiliti. È un allargamento in tre direzioni della nozione tradizionale di garantismo: garanzia non solo dei diritti di libertà, ma di ogni diritto fondamentale, compresi quelli politici e sociali; garanzia non solo contro l’azione dei poteri pubblici, ma anche contro i poteri privati e di mercato; garanzia, infine, non solo sul piano dei diritti stabiliti entro gli ambiti nazionali, ma anche di quelli scolpiti nelle carte sovranazionali.
Il costituzionalismo garantista costituisce così un vero e proprio paradigma complessivo, un modello di diritto, alternativo e, nello sviluppo progressivo del diritto moderno, cronologicamente successivo al diritto giurisprudenziale, nel quale è centrale l’attività delle corti, e del diritto legislativo, dominato dalla centralità della legge. Le costituzioni lunghe e rigide del Novecento introducono stretti vincoli allo stesso legislatore: il costituzionalismo garantista, chiarisce Ferrajaoli, è un’interpretazione che difende la portata prescrittiva di questi vincoli. I cosiddetti principi costituzionali non sono dunque vaghi «valori» morali, e neppure semplici direttive: sono invece vere e proprie norme, che impongono precisi limiti e obblighi allo stesso legislatore.
Nessuna interpretazione «mite» del costituzionalismo è qui concessa, per riprendere il titolo di un importante libro di Gustavo Zagrebelsky: il costituzionalismo non apre il diritto moderno a una nuova logica, più fluida ed elastica, della ponderazione o del bilanciamento dei principi costituzionali. Il costituzionalismo garantista di Ferrajoli, al contrario, rivendica pienamente la forza costruttiva, regolativa e progettuale del costituzionalismo moderno, contro ogni tentazione di vedere invece, nel costituzionalismo contemporaneo, una rottura o una metamorfosi profonda delle architetture piramidali del diritto.
La vera novità, rispetto al giuspositivismo classico, sta piuttosto nella natura dei vincoli che le costituzioni pongono al legislatore: vincoli non solo di natura formale, ma anche di natura sostanziale. Questo significa che la validità delle norme giuridiche non dipende più solo dal rispetto delle procedure: i diritti costituzionalmente garantiti diventano anche criterio per giudicare della stessa validità delle norme. La validità del diritto è (anche) questione di sostanza: le strette maglie della tela procedurale costruita da Kelsen sono defintivamente rotte dalla portata normativa forte e sostanziale del costituzionalismo garantista compiutamente dispiegato.
Questo impegnativo modello teorico diventa, allo stesso tempo, criterio normativo per giudicare la realtà del presente e guida per l’elaborazione progettuale. Il diritto effettivo è, infatti, drammaticamente lontano dal disegno normativo tracciato dal costituzionalismo garantista. Proprio l’aver assunto pienamente tutta la forza normativa del costituzionalismo rende particolarmente penetrante, e spietatamente realistica, l’analisi critica che Ferrajoli compie dei processi di decostituzionalizzazione, che coinvolgono tutti i livelli, dalla perdita di normatività del diritto statuale, al sostanziale tradimento del progetto europeo, al vuoto radicale di diritto pubblico e di garanzie sovranazionali che caratterizza lo spazio globale, dove pure le carte dei diritti avevano lasciato intravvedere un primo, embrionale processo di costituzionalizzazione globale.
L’economia finanziaria globalizzata segna la crisi profonda dell’apparato garantista: il vuoto di diritto sovranazionale è riempito dagli «spiriti animali» di un capitale tendenzialmente anomico. L’esito finale è quello della presa d’atto di un fallimento complessivo e, soprattutto, di una crisi radicale della stessa capacità regolativa del diritto.

Una tragica divaricazione

Di fronte a questa tragica divaricazione fra le promesse del costituzionalismo e la forza distruttiva del capitale globale, la risposta di Ferrajoli è un nuovo atto di fiducia nelle capacità progettuali del costituzionalismo normativo. Il dover essere delle garanzie, ancorato comunque ai diritti nelle carte nazionali e sovranazionali, va ribadito nuovamente proprio in un mondo caratterizzato dall’assenza della maggior parte di quelle garanzie e dalla violazione continua di quei diritti. Nessun rifugio è possibile negli spazi nazionali: globale è la sfida, globale non potrà che essere l’elaborazione del progetto normativo di risposta. E, dal punto di vista programmatico, gli spunti di approfondimento del costituzionalismo offerti da Ferrajoli, sono notevoli e condivisibilissimi. Si pensi all’insistenza felice con cui si riafferma la necessità di rendere effettivamente universali le garanzie welfaristiche, e agli argomenti portati a sostegno dell’inserimento di un reddito di base quale «fattore di liberazione del lavoro e, insieme, dal lavoro»: una proposta di riforma sicuramente capace di oltrepassare la connotazione lavoristica del costituzionalismo del Novecento.
Eppure, una così tenace riaffermazione della valenza normativa del progetto costituzionalista, proprio a fronte di una descrizione così aspra e realistica della crisi del diritto contemporaneo, ci sembra finisca per esorcizzare il dubbio, che invece andrebbe posto in tutta la sua nettezza: che non si tratti di una crisi contingente, in qualche modo «esterna» rispetto alla forza normativa che il costituzionalismo conserverebbe, ma che la crisi coinvolga radicalmente il modello stesso. La sottolineatura di Ferrajoli della portata normativo-progettuale del costituzionalismo produce, al contrario, una divaricazione netta e consapevole dell’ambito della validità da quello della realtà sociale, che invece proprio il «formalismo» di un Hans Kelsen riusciva a mantenere in estrema tensione, facendo esplodere alla fine tutta la crisi costitutiva «interna» del diritto moderno.
La divaricazione dualistica del piano della validità sostanziale dal piano della fattualità, se rafforza sicuramente l’utilizzabilità del costituzionalismo come modello e come progetto politico, rischia così di «salvare» il diritto contemporaneo dalla sua stessa crisi, di spingere la crisi all’esterno del modello, come se le logiche del capitale globale non avessero già riscritto in profondità la sintassi stessa dello stato di diritto e della democrazia rappresentativa. E, dall’altro lato, la rivendicazione normativa della forza «inattaccata» del garantismo costituzionale rischia di nascondere quegli aspetti di novità radicale, che si affacciano negli stessi processi di decostituzionalizzazione, e che possono essere materiali di costruzione e di immaginazione di un’uscita «altra» dalla crisi.

Gli spazi di autonomia

La decostituzionalizzazione, potenzialmente, non libera solo i mercati: ma apre spazi di autonomia e di sperimentazione di pratiche costituenti, dal basso, in cui possono muoversi, oggi, gli stessi movimenti sociali. Molto significativa, a questo proposito, ci sembra la questione dei beni comuni, sulla quale non a caso Ferrajoli si sofferma.
Per Ferrajoli, si tratta di porre mano ad una ridefinizione profonda dei beni, di adottare una più comprensiva categoria di «beni fondamentali», e di sottolinearne la stretta implicazione coi diritti fondamentali. Sarebbero invece da considerarsi solo retorici i riferimenti ai beni comuni, e tanto più del concetto di «comune» al singolare, che puntano a dichiarare superata la tradizionale distinzione tra pubblico e privato. Queste tesi, dice Ferrajoli, rischiano di confondere le idee, perché contraddicono la «grammatica del diritto» e rischiano di minarne la portata garantistica. Eppure, l’erosione di quella distinzione pubblico/privato è esattamente uno dei tratti fondamentali della crisi della forza normativa del diritto moderno, che ben difficilmente potrà essere riattivata, sia pure con il più apprezzabile degli impegni politico-normativi. E non è certo retorica segnalare come, nelle rivendicazioni che hanno animato i movimenti dei beni comuni, non fosse solo in questione l’esigenza di tutela di alcuni beni particolari, ma emergessero esigenze di riappropriazione di momenti di autogoverno, di democrazia radicale, di valorizzazione della forza della cooperazione sociale.
Contro i modelli proprietari e individualistici, e contro le tradizioni statalistiche e burocratiche, vengono rivendicati e praticati spazi di autonomia che tendono a complicare e a forzare la stessa logica eteronoma che anima il diritto moderno. I nuovi movimenti sociali, di cui Ferrajoli sottolinea spesso l’importanza, non sono solo una riserva di energia politica per superare la crisi della democrazia e dello stato di diritto: ma spingono, e proprio sul terreno sovranazionale su cui di certo si gioca la partita, verso sperimentazioni di forme di riappropriazione della decisione in comune, verso pratiche costituenti di tipo inedito, che certo mettono in discussione le grammatiche del diritto, anche quelle del costituzionalismo più avanzato, ma che aprono terreni costituenti, certo potenziali e da sondare con sperimentale «cautela», al di là della stessa eredità della «ragione giuridica» artificialista e hobbesiana del Moderno, pur se assunta nella versione avanzatissima che Ferrajoli ha avuto il grande merito teorico ed etico-politico di dispiegare con assoluto rigore analitico.

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