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Le regole del giardino e il presente dell’America

Le regole del giardino e il presente dell’AmericaJoel Edgerton e Sigourney Weaver in una scena da «Il Maestro Giardiniere»

Al cinema Con «Il Maestro Giardiniere» Paul Schrader chiude la trilogia di «First Reformed» e «The Card Counter». Fra redenzione e colpa, l’incontro di due opposti per parlare del razzismo. Un uomo solitario al servizio di una donna glaciale, la piantagione fuori dal tempo, l’irruzione della realtà

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 14 dicembre 2023

L’immagine di un uomo solo, seduto al tavolo, che scrive, torna spesso nel cinema di Paul Schrader; ed è l’immagine emblematica della trilogia che si conclude con Master Gardner, in Italia Il Maestro Giardiniere. Dopo il pastore di una chiesa di campagna (First Reformed, 2017) e un mago dei tornei di carte di provincia (The Card Counter, 2021), in Master Gardner, l’uomo solo, emotivamente inaccessibile, che – attraverso la scrittura (primo medium di Schrader) – cerca di dare senso ai fantasmi del passato e al tormento del presente, è il mastro giardiniere di una piantagione del Sud. Una Tara quasi completamente disertata dell’umanità, congelata nel tempo, come la glaciale donna che la governa, Norma Haverhill (Sigourney Weaver, geniale), una padrona che usa le parole come scudisciate e che raramente si spinge aldilà della linea di confine del portico della sua grande, bianca casa di legno circondata da alberi spioventi.

ALLO STESSO modo dei protagonisti solitari e taciturni che lo hanno preceduto (una galleria di cui fanno parte anche il gigolò americano Richard Gere e lo spacciatore di Light Sleeper), il giardiniere Narvel (Joel Edgerton) eccelle nella sua professione, dietro alla quale si mimetizza, come un personaggio di Hawks. Simile al luogo che lo circonda, anche Narvel emana infatti una calma innaturale, a malapena tradita dal baratro nero che Edgerton conferisce al suo sguardo. Lo scandire regolare, quasi zen, della sua routine botanica, in previsione dell’annuale mostra floreale, viene interrotta dall’arrivo nella piantagione di Maya (Quintessa Swindell), nipote bi-racial di Norma, che l’affida a Narvel affinché lui le insegni le leggi del giardino. Anche Maya – che non va d’accordo con la nonna – non valica la linea di confine del portico, solo dall’altra parte.

CONTRARIAMENTE alla sua mise-en-scene quasi sempre austera, caratterizzata da inquadrature lunghe, interrotte da pochi movimenti di macchina (un’estetica forse anche dettata dal fatto che i suoi film non hanno mai avuto i budget dei coetanei della nuova Hollywood come Scorsese o De Palma), le sceneggiature di Schrader sono ricche di strati e toni diversi, come sinfonie.
E, se qui l’idea del giardino è una metafora del rinnovamento e della possibile rinascita, quella di mimesi ha anche una valenza letterale – è questione di pelle. Visibilmente scura quella di Maya, foderata di un segreto infame quella di Narvel. Come possono amarsi due opposti così grandi? La sfida di Master Gardner è qui.

Dopo la distruzione della natura (First Reformed) e le bestialità della guerra (The Card Counter) – nodi che aveva abilmente inanellato nella sua ricerca poetica di sempre, legata ai temi della redenzione e della colpa- stavolta Schrader parla di razzismo. Lo fa con un candore depistante, lo stesso che ha usato per introdurre il presente negli altri due film di questa sua trilogia, sbocciata magicamente «fuori stagione», come i fiori che si aprono dal buio e dall’asfalto davanti a Narvel e Maya, in fuga nella notte.

Un po’ per la sua naturale irrequietezza (ha sempre dimostrato il fiuto di un reporter), un po’ perché – anche per ragioni di budget – Schrader si circonda spesso di collaboratori molto più giovani di lui e «alle prime armi», oggi il suo cinema esiste, rinnovandosi in continua, vivacissima, dialettica con il mondo che ci circonda. Schrader tratta quel mondo con il rigore filosofico e il gusto per la provocazione intellettuale di sempre (quelli che aveva impartito anche alle sceneggiatore di Taxi Driver e The Last Temptation of Christ) ma – forse perché negli ultimi tre film l’eroe schraderiano classico stabilisce un rapporto con un personaggio molto più giovane di lui – qui c’è una tenerezza in più. E, nell’ultima, bellissima inquadratura di Master Gardner (girata da una distanza dell’occhio/macchina così perfetta che spezza il cuore) forse anche un’ombra di speranza.

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