Alias Domenica

Le radici occidentali di Shankara

Le radici occidentali di Shankara

Filosofia indiana Attingendo alla sua erudizione, Coomaraswamy identificò, fra il ’32 e il ’47, una sostanziale conformità fra la metafisica del Vedanta e quella di Platone: «La tenebra divina», Adelphi

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 16 luglio 2017

Nato in Sri Lanka e cresciuto a Londra, Ananda Kentish Coomaraswamy è oggi riconosciuto, a settant’anni dalla sua morte, come il più grande storico dell’arte indiana del XX secolo. Il suo lavoro più maturo lo portò a compimento quando, attingendo a una impareggiabile erudizione artistica, folklorica, mitologica, religiosa, espose la propria prospettiva sul pensiero tradizionale, elevando sé stesso, e la indiscussa genialità del suo sapere, a punto di reciproco contatto fra la cultura occidentale classica e le filosofie orientali. Nella sua immane attività produttiva, che conta svariate decine di opere critiche, La tenebra divina Saggi di metafisica (edizione italiana a cura di Roberto Donatoni, pp. 511 , euro 42,00), che oggi Adelphi pubblica come seconda parte dei Selected Papers, usciti postumi in versione inglese a cura Roger Lipsey nell’ormai lontano 1977 a Princeton, getta le fondamenta di quel ponte lanciato fra Oriente e Occidente che Coomaraswamy edificò cominciando proprio con l’identificare la sostanziale conformità – e non solo le similitudini – fra i principi metafisici della scuola indiana del Vedanta e gli insegnamenti di Platone.

Il volume – assieme al precedente dedicato al simbolismo e all’arte, pubblicato in Italia con il titolo Il grande brivido (Adelphi, 1987) – consta di una vasta scelta di scritti risalenti al periodo compreso fra il 1932 e il 1947 in cui l’autore era sovrintendente presso il dipartimento di arte asiatica al Museum of Fine Arts a Boston, e coincide con quella che fu, probabilmente, la fase più creativa della sua eccezionale produzione.
Il volume si apre seguendo le tracce, purtroppo esili, della vita di Shankara, grande maestro e metafisico indù vissuto tra il VIII e il IX secolo, a cui si deve la sistematizzazione dell’Advaita Vedanta, uno degli insegnamenti cardine della filosofia indiana. Pescando dagli antichi testi sacri dell’induismo – le Upanishad, i Brahma Sutra, la stessa Bhagavad Gita – Shankara oppose il continuo divenire della realtà fenomenica, appartenente al mondo manifesto, alla Realtà assoluta, in una prospettiva monistica. L’Advaita infatti, letteralmente «non duale», concilia i principi del Sé (Atman) con l’Assoluto (Brahman) sulla base della loro intrinseca consustanzialità e indivisibilità. Il merito dell’insegnamento di Shankara – per quanto lungi dall’intaccare la caleidoscopica frammentarietà di scuole, prospettive religiose e indirizzi soteriologici del mondo indiano – fu l’armonizzazione dei fondamenti di quella che fu l’alta speculazione filosofica con la religione popolare e con il profondo trasporto emozionale delle correnti devozionali a venire, e della mistica indiana in generale.

A questa sistematizzazione di Shankara, dalla quale prende l’avvio, Coomaraswamy dona tuttavia un respiro più ampio, cucendo assieme pazientemente i punti in comune che avvicinano Cristianesimo, Islam, Neoplatonismo con le discipline indù, alla ricerca di quella Realtà che ciascuna tradizione interpretò come suprema conoscenza. Del resto, ottenere l’Assoluto, secondo la filosofia indiana non è alla fine un’opportunità dell’essere umano che implichi per forza di cose un punto di partenza prestabilito. Infatti i sei darshana classici dell’induismo, ovvero i sistemi filosofici frutto di diverse «prospettive» in tema religioso (fra i quali c’è appunto il Vedanta), erano concepiti come i raggi della ruota di un carro: pur partendo da prospettive diverse, e percorrendo traiettorie differenti, essi fanno parte di un unicum e tendono tutte allo stesso centro. Allo stesso modo, Coomaraswamy parla di rami, ramificazioni della conoscenza – o meglio di un’unica scienza – che va però avvicinata secondo i modi propri di ciascun filosofo, il quale non può che far cominciare la propria esperienza nel tempo e nel luogo in cui si trova, sapendo come tutte le strade conducano, infine, al medesimo Sole.

Immergendosi nella codifica delle radici comuni al simbolismo d’Oriente e d’Occidente, Coomaraswamy illumina la differenza fra reincarnazione, trasmigrazione e metempsicosi, interrogandosi sui concetti di anima e di Sé, indagando ancora le facoltà umane di conoscenza basate su sensi, ragione e intelletto. Per cimentarsi in questa impresa ricorre a figure quali essenza e sostanza, potenza e atto, forma e accidente, e così via: strumenti terminologici abituali a chi abbia familiarità con la filosofia e le discipline orientali, che l’autore esprime con coinvolgente semplicità e chiarezza.
Assieme a René Guenon, che esercitò su di lui una grande influenza, Coomaraswamy traduce questo suo sapere in un linguaggio spirituale che vanta a sua volta numerosi dialetti, e non può venire indagato se non secondo una prospettiva tradizionale, purtroppo troppo spesso dimenticata nel mondo moderno e probabilmente oggi offuscata, se non esplicitamente deviata, più in Occidente che India.

Considerando quanto il mondo occidentale sembri sempre meno interessato alla ricerca di un Dio, e meno incline al cammino spirituale e alla trascendenza, Coomaraswamy torna al platonismo, al periodo ellenistico, alla prima patristica, al neoplatonismo, passando per i Vangeli e giungendo alla teologia mistica del Medioevo cristiano, non senza frequenti incursioni nella letteratura arabo-persiana, nel sufismo e nella teologia islamica in generale.
Non solo Platone, Filone, Ermete, Plotino, Boezio, Agostino e Dante, dunque, ma anche Jami, Ibn ’Arabi, Rumi e moltissimi altri studiosi si offrono come strumenti concreti per affrontare questo meraviglioso viaggio, capace di ricondurre il lettore a un continente che dovrebbe sembrargli, ora, meno lontano: l’India dei Veda e delle Upanishad, degli insegnamenti dei maestri e della letteratura sacra che costituiscono le basi di una metafisica pienamente accessibile, proprio grazie agli studi di Coomaraswamy e alla sua capacità espositiva.

Il suo incredibile itinerario si articola attraverso una selezione di ventisette saggi in cui traspare una immensa erudizione derivata dalla aderenza ai testi e alle fonti. Grazie a Limpsey, curatore dell’opera, veniamo informati sul modo in cui le primissime edizioni dei saggi fossero state corredate dal loro stesso autore con una fitta selva di osservazioni, postille appunti presi a mano, che oggi impreziosiscono il volume.
La redazione di un materiale così ricco (Coomaraswamy, come i pandit indiani, usava citare i testi a memoria) ha richiesto un lavoro di revisione, verifica, traduzione e compilazione di più indici tematici e bibliografici di eccezionale acribia. Questa fatica – svolta anche con peculiari competenze linguistiche in merito al sanscrito, al pali e al greco antico – ha visto coinvolti nel tempo studiosi e indologi del calibro di Heinrich Zimmer, Joseph Campbell, Stella Kramrisch, Mircea Eliade e moltissimi altri. Il risultato è dunque un’opera di straordinaria profondità, che funziona ancora come validissimo strumento di studio e di ricerca interiore, costituendo uno di quei testi impossibili da esaurire definitivamente e a cui viceversa attingere nel corso di una intera vita.

Vale per il testo di Coomaraswamy quel che scrisse Dadu Dayal, mistico indiano del XVI secolo: «La parola del guru è simile a una freccia: giunge lontano e a remote regioni il discepolo conduce. Colui che la sa coglier con chiarezza, si libera e si risveglia dal sonno in cui era immerso».

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento