Visioni

Le parole non dette da Hong Sangsoo

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Venezia 71 Nella sezione Orizzonti presentato il curioso triangolo amoroso del regista coreano dal titolo «Hills of Freedom»

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 5 settembre 2014

L’impossibilità di trovare una stabile collocazione al tempo, i guasti del linguaggio e della parola sono da sempre le vaste costellazioni osservate con precisione focale dal regista coreano Hong Sangsoo, in concorso nella sezione Orizzonti, con il suo nuovo, fulminante (poco più di un’ora di durata) Hill of Freedom che prosegue, con passo sospeso e spazioso, un nuovo personale discorso sulle intermittenze verbali e del cuore.

Con il suo penultimo film Our Sunhi, in concorso al Festival di Locarno nel 2013, il regista coreano sezionava con soavità e astrazione le pericolose trappole orali che, con le loro limitazioni fonetiche, castravano la libertà di osservazione e studio del mondo e dove una lettera di raccomandazione diventava «casus belli» di una piccola guerra di punti di vista sulla personalità della studentessa protagonista, vagheggiata e «commentata» da tre uomini incapaci di cogliere la sua essenza.

http://youtu.be/EVfxymMqN8g

La messa in crisi della parola scritta in Hill of Freedom si fa ancor più radicale perché capace di frantumare il tempo e lo spazio di un semplice triangolo amoroso, sciogliendo i vincoli della continuità per sovrapporre le oscillazioni sentimentali di tre esseri umani. In questo film Kwon, giovane insegnante di lingue, topos del regista coreano anch’egli docente universitario, riceve un plico contenente fiumi di parole fittissime scritte dal suo ex fidanzato Mori, professore giapponese tornato in Corea dopo due anni per ritrovarla. Kwon legge la prima lettera ma subito dopo, per una banale scivolata sulle scale, sparpaglia l’ordine delle missive di Mori, prive di data o di numerazione e comincia così la frantumazione amorosa e temporale di Kwon che intraprende a sua volta una ricerca di verità, proprio come il suo ex compagno, sempre più allarmato dall’assenza della donna.

L’indagine quasi «mitica» di Mori ha anche sfumature romantiche e picaresche: nel tentativo di rintracciare l’amata infatti, l’inquieto professore trova rifugio in un bar, Collina della libertà che dà il titolo al film, intimo crocevia quasi sospeso nel tempo di moti del cuore e piccoli drammi, di proprietà di Youngsun, ragazza male accoppiata che sogna il vero amore e crede di trovarlo nel maestro giapponese. Attorno alla nascita di questo nuovo sentimento, figure buffe e elevatissimo tasso alcolico, altri motivi ricorrenti della poetica del regista coreano, sono armonizzati con la consueta lievità fino alla conclusione che rimette tutto e tutti al proprio posto.

Kwon e Mori rientreranno insieme in Giappone, e la voce fuoricampo dell’uomo racconta un futuro di matrimonio e figli, dopo il vertiginoso caos governato dal sonno e dai sogni, accompagnati da una macchina da presa libera, guidata con densità e dolcezza ma con l’inquieta consapevolezza che basterebbe un lieve soffio di vento a rimescolare nuovamente i fogli della vita.

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