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Le parole disilluse

Le parole disilluse

Ritratti «A ferro e fuoco. Eroi, belve e martiri di Spagna» dello scrittore sivigliano esce in Italia con La Nuova Frontiera. Ormai un classico moderno, il libro è composto da nove racconti sulla Guerra Civile e fa conoscere un autore sorprendente che solo l’uso improprio dei suoi scritti ha ridotto a santino della «terza Spagna»

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 23 giugno 2015

In un’Europa senza memoria chi si ricorda, oggi, dei campi di concentramento in cui settantasei anni fa la Francia rinchiuse gli spagnoli in fuga, dopo la definitiva sconfitta della Repubblica?
«Disfatti, malridotti, furiosi, schiacciati, con la barba lunga, non lavati, sporchi, sudati, stanchi» e tuttavia «il meglio della Spagna» (così li racconta Max Aub), nel giro di tre settimane quasi cinquecentomila profughi varcarono la frontiera a piedi o con mezzi di fortuna e vennero poi stipate nei campi di Argelés-sur-mer, Barm, Gurs, Sain Cyprien e altri ancora, in condizioni definite atroci dallo scrittore catalano-messicano Jordi Soler, figlio e nipote di rifugiati, che ha evocato sul quotidiano El País la memoria di «una pagina oscura della storia di Francia cancellata dalla storia ufficiale», per poi aggiungere: «Sembra che nel modo di trattare i migranti operi una sinistra simmetria… I cadaveri sospinti dalla onde sulle spiagge di Lampedusa sono l’eco nefasta di quelli che giacevano, non troppo tempo fa, sulla spiaggia di Argelés -sur-mer».

Altri rifugiati spagnoli, almeno diecimila, fecero in senso inverso il viaggio via mare che oggi compiono i migranti, approdando in Nordafrica su navi come il mercantile Stanbrook – il suo capitano sfidò la volontà degli armatori imbarcando quasi tremila «clandestini» per portarli da Alicante a Orano, verso un destino comunque incerto – mentre ventimila partirono per il Messico grazie al governo di Lazaro Carreter, che praticò una straordinaria politica di aiuto ed accoglienza.

Un rifugiato d’eccezione
Prima di quell’enorme esodo collettivo, però, nei tre anni di un conflitto durissimo e combattuto ad armi impari c’era stato un lungo stillicidio di partenze e addii. Tra gli altri, quello di uno dei migliori giornalisti spagnoli, Manuel Chaves Nogales, nato a Siviglia nel 1897 e firma illustre di quotidiani e riviste come El Heraldo de Madrid, Estampa e Ahora, nonché convinto sostenitore della Repubblica e del suo ultimo presidente, Manuel Azaña: non appena il governo repubblicano trasferì la sua sede da Madrid a Valencia, nel novembre del 1936, Chaves decise infatti di rifugiarsi a Parigi con la famiglia e là rimase fino al 1940, quando, ricercato dalla Gestapo, partì fortunosamente per Londra, dove sarebbe morto nel 1944 per una fulminea peritonite. Non era, ovviamente, un rifugiato «di lusso», ma d’eccezione sì: da inviato speciale aveva raccontato l’evolversi del regime sovietico come la nascita del nazismo e del fascismo, in seguito aveva diretto uno dei principali quotidiani spagnoli ed era abbastanza importante e conosciuto perché, al suo arrivo, il governo francese gli assegnasse un modesto appartamento e diversi giornali latinoamericani e francesi gli offrissero di collaborare (più tardi, in Inghilterra, farà parte dell’agenzia di stampa Atlantic-Pacific Press).

Chaves ebbe dunque la fortuna, pur tra le mille difficoltà dell’esilio, di potersi guadagnare da vivere con il suo mestiere (e la sua passione) di sempre, scrivendo incessantemente non solo articoli, ma saggi assai acuti – per esempio «Agonia della Francia», del 1941, dura testimonianza sul governo di Vichy, tradotto l’anno scorso in italiano da Hado Lyria per Neri Pozza – che andavano ad aggiungersi ad altre sue opere di successo, come La vuelta a Europa en avión. Un pequeño burgués en la Rusia roja, del 1929, e ancora El maestro Juan Martínez que estaba allí, del ’34, o Juan Belmonte matador de toros (Neri Pozza 2014), splendida biografia di un famosissimo torero.

Appena arrivato a Parigi, inoltre, scrisse «a caldo» nove racconti sulla guerra civile destinati al quotidiano argentino La Nación , che nel ’37, col titolo di A sangre y fuego. Héroes, Bestias y mártires de España, furono raccolti in volume da un editore cileno per essere subito tradotti negli Stati Uniti e in Canada: un testo ormai giudicato fondamentale in seno alla pur vastissima letteratura su un tema ineludibile, e che tuttavia in Spagna rimase praticamente ignoto fino al 1993, quando le opere complete di Chaves vennero pubblicate a cura di María Isabel Cintas Guillén, studiosa sivigliana che si è dedicata alla riscoperta dell’autore, ormai del tutto dimenticato.
Toccherà poi ad Andrés Trapiello includere il prologo di A sangre y fuego nel suo discusso saggio Las armas y las letras. Literatura y guerra civil, contribuendo così all’attuale fortuna editoriale degli scritti di Chaves Nogales, riproposti in questi anni: un successo consacrato sia dalla critica che dall’attenzione di scrittori autorevoli come Antonio Muñoz Molina, grande estimatore del giornalista sivigliano.
Divenuto rapidamente un «classico moderno» di cui vengono riconosciute la qualità estetica e il forte impatto emotivo, A sangre y fuego esce oggi in italiano grazie all’editore La Nuova Frontiera, nell’accurata traduzione di Elisa Tramontin (A ferro e fuoco. Eroi, belve e martiri di Spagna, pp. 327, euro 16): un libro sorprendente, uscito giusto in tempo per rinfrescare la memoria collettiva in vista dell’ottantesimo anniversario della Guerra Civile, che cade l’anno prossimo.

Armi affilate della letteratura
Da «Massacro, massacro!», sui bombardamenti di Madrid, a «E in lontananza, una lucina», con la sua caccia a una rete di spia falangiste che comunicano tra loro grazie a segnali luminosi, fino a «I guerrieri marocchini» e «Le gesta dei cavalieri», dove la stupidità e la violenza senza scampo della guerra, di qualsiasi guerra, sembrano riscattate dal fugace incontro tra nemici che non riescono a rinnegare la propria umanità, le storie di Chaves Nogales testimoniano del talento di un giornalista fedele al motto di Robert Capa («Se la foto riesce male, vuol dire che non eri abbastanza vicino»), che osserva e descrive quanto lo circonda con un linguaggio pulito e incisivo, ma che allo stesso tempo frequenta, sostenuto da una indiscutibile ambizione letteraria, altri territori del narrare.

In A ferro e fuoco Chaves è senz’altro più scrittore che giornalista e, pur sostenendo che ogni storia si ispira a un fatto vero, per raccontarla ricorre a tutte le armi della letteratura, avvince il lettore con una prosa asciutta, quasi alla Hemingway, esibisce una notevole cura per il linguaggio, ricorre a dialoghi che riproducono fedelmente la parlata popolare, semina immagini folgoranti, disegna paesaggi con pochi ed efficacissimi tocchi e non scorda di aver prodotto a suo tempo anche una sorta di romanzo popolare e sentimentale, La bolchevique enamorada (El amor en la Rusia roja), pubblicato a puntate sulla rivista Estampa. E, soprattutto, ci stupisce per la sua modernità, grazie a quell’abile intreccio tra fiction e non fiction che sembra una caratteristica fondamentale della narrativa contemporanea e che fa di lui un esponente ante litteram della crónica, genere trasversale oggi intensamente praticato e di origini più remote di quanto si tenda ad ammettere.

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Quello che i suoi esegeti non mancano in risalto è il punto di vista relativamente insolito, in seno alla grande narrazione della guerra civile, di qualcuno che si dichiara estraneo a entrambe le parti, per lui accomunate da una medesima barbarie, e che nel prologo dà conto dei motivi di quella che potrebbe sembrare una fuga: «Antifascista e antirivoluzionario per temperamento, mi rifiutavo sistematicamente di credere nelle virtù salvifiche della grandi sollevazioni e aspettavo lavorando, fiducioso nel corso fatale delle leggi dell’evoluzione. Ogni rivoluzionario, con il dovuto rispetto, mi è sempre sembrato deleterio come qualsiasi reazionario (…). Nella mia diserzione pesava tanto il sangue sparso dagli squadroni di assassini che seminavano il terrore rosso a Madrid quanto quello versato dagli aerei di Franco, che hanno ammazzato donne e bambini innocenti».

Le polemiche mai sopite
Questa dichiarazione non di equidistanza, ma di visione della guerra civile in linea con le convinzioni di un «piccolo borghese liberale, cittadino di una repubblica democratica e parlamentare» (così si autodefinisce Chaves nel prologo) e con quelle della minoranza liberale che comunque aveva creduto nella Repubblica e le era rimasta fedele, è stata però usata da alcuni (e in particolare da Trapiello) per fornire sostegno alle tesi che propugnano l’esistenza di una «terza Spagna», cioè di una maggioranza silenziosa e impotente trascinata, lo volesse o no, in un cruento scontro fratricida da due minoranze fanatiche, due «opposti estremismi» votati a ideologie diverse ma speculari e identicamente totalitarie. Di questa terza Spagna (della quale, non dimentichiamolo, tentò di accreditarsi come rappresentante e interprete il primo Aznar, quello degli anni ’90), Chaves Nogales rischia oggi di trasformarsi in una sorta di santino, ben al di là delle sue intenzioni, del suo disagio di fronte agli eccessi di entrambe le parti, e della sua speranza delusa in «…uno Stato in cui sia possibile la convivenza umana tra cittadini di idee diverse e la normale relazione con gli altri stati». Attorno ai racconti di A ferro e fuoco, e soprattutto al citatissimo prologo, si è così sviluppata una polemica che, pur riconoscendo l’interesse oggettivo e il valore dell’opera, ha criticato vivacemente la lettura in chiave più o meno revisionista di Trapiello e altri, e che traspare anche nel ’corto’ El hombre que estaba allí realizzato nel 2013 da Daniel Suberviola e Luis Felipe Torrente e dedicato alla vita e all’opera del giornalista.

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Tra i tanti che hanno polemizzato con quello che Antonio Muñoz Molina ha definito chavesnogalismo, ci sono anche il critico José Luis García Martín, che non ha mancato di sottolineare le inesattezze e le contraddizioni del famoso prologo, e lo storico Francisco Espinosa Maestre, che ha dedicato una lunga e puntuale analisi a Chaves Nogales e all’uso che si è fatto di alcuni dei suoi scritti, per «offrire una visione negativa e caotica della Repubblica e farci credere che la guerra, in cui tutti furono uguali, fu inevitabile». E, nell’accingersi a leggere A ferro e fuoco, queste parole non vanno dimenticate.

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