Cultura

Le parole della violenza

Le parole della violenza

Saggi «Femminismo e processo penale» di Ilaria Boiano, pubblicato da ediesse. Un’attiva presenza femminile nelle aule giudiziarie produce trasformazioni e aiuta a individuare ipotesi di procedure e norme più attente alle donne

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 3 dicembre 2015

Femminismo e processo penale (ediesse, pp. 340, euro 16) di Ilaria Boiano non è solo il saggio di una giurista femminista, ma è il libro di un’avvocata impegnata a fianco delle donne che si rivolgono ai centri antiviolenza. È un testo che nasce da un posizionamento dichiarato e rivendicato, che ambisce a mostrare il nesso tra norme penali ed esperienza concreta che le donne fanno della violenza. L’autrice scommette sull’utilità dei diritto per la trasformazione della vita delle donne. Conclusione che non è figlia di una lettura ingenua, né della violenza né del diritto.
Al contrario, Ilaria Boiano si fa forte dell’attraversamento critico che il femminismo ha fatto del diritto per mostrare l’uso efficace che di esso se ne può fare. Il punto di vista è quello delle giuriste che, in questi anni, hanno accompagnato e sostenuto le donne che decidevano di denunciare e che hanno cercato di utilizzare le norme per sostenere il loro percorso di fuoriuscita dalla violenza.

Questa esperienza è proposta come terzo modo di elaborare il rapporto tra femminismo e diritto. Definita come «ritorno alle pratiche», si affianca a quello del «sopra la legge» (Cigarini) e della produzione di vuoti legislativi, e a quello che invece ha visto nella legge un terreno di negoziazione, con il rischio però di appiattire i conflitti politici nella sola dimensione giuridica. Seguendo Tamar Pitch, che firma anche una delle due introduzioni al testo, Boiano avverte però che la lettura delle divisioni all’interno del femminismo italiano sul diritto non attiene alla sua utilità, ma piuttosto agli obiettivi e alle pratiche.

A partire dalle vicende di cinquanta donne che si sono rivolte all’associazione Differenza Donna, l’esperienza del «ritorno alle pratiche», la cui complessità è narrata anche nell’introduzione di Teresa Manente, viene raccontata mostrando come un’attiva presenza femminile nelle aule giudiziarie produca trasformazioni e aiuti a individuare concrete ipotesi di procedure e norme più attente alle donne. Tanto più necessarie alla luce della resistenza al cambiamento della cultura giuridica, del permanere tra gli operatori della giustizia di stereotipi e atteggiamenti culturali discriminatori nei confronti della vittima.

Questo approccio consente all’autrice di sostenere che politiche di empowerment delle donne e riconoscimento della loro condizione di vittime, all’interno di un procedimento di querela di un reato di violenza, non siano azioni contraddittorie. Distinguendo tra vittima e vittimismo sottolinea l’utilità di tale definizione per ricorrere alle risorse giuridiche a disposizione e meglio tutelare la donna che ha subito violenza. Mostra le diverse strategie messe in atto, restituisce la discussione che si è sviluppata attorno al nodo della violenza sessuale, in ambito nazionale e internazionale.

Riesamina così in tutto il suo spessore la vexata quaestio tra procedibilità d’ufficio o querela di parte, recentemente riproposta dalla temporanea irrevocabilità della denuncia per atti persecutori (legge n.119/2013). In gioco c’era la prevalenza dell’autodeterminazione delle donne in un sistema penale che ha contribuito a legittimare la violenza maschile nei loro confronti oppure la necessità di sancire la gravità del delitto e liberare in questo modo le donne dal ricatto. Eppure la prassi suggerisce che, a prescindere dal regime di procedibilità o meno, urgono altre questioni, come quella di assicurare l’esercizio del diritto alla difesa della donna offesa sin dall’inizio del procedimento. Rimane aperto il nodo della definizione della violenza contro le donne; il libro mostra il significato delle diverse locuzioni usate: violenza di genere, violenza maschile contro le donne, femicidio/femminicidio

Questa restituzione del pluralismo del discorso femminista sulla violenza, del modo in cui normative nazionali e internazionali la definiscono è uno dei pregi del libro. Tanto più prezioso oggi. Dopo il recepimento della Convenzione di Istanbul, infatti, stenta ad attivarsi una politica integrata e globale, efficace nel sostenere il cambiamento che le donne hanno prodotto e nell’interrogare il rapporto degli uomini con la violenza. Diventa così utile provare a nominare precisamente di cosa stiamo parlando in un momento in cui – per dirla con le parole di Patrizia Romito, richiamate dall’autrice – dal silenzio di un tempo si è passati al rumore di oggi. Il rumore, si sa, può stordire, ma soprattutto nasconde tanto quanto il silenzio

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