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Le nuove crepe sui muri dei Palazzi di Bruxelles

Le nuove crepe sui muri dei Palazzi di BruxellesProtesta contro il Ttip a Bruxelles – Lapresse-Reuters

Europa Dai paesi del Mediterraneo un cambiamento incomprensibile per i tecnocrati

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 30 maggio 2015

Che ci sia aria di cambiamento (anche se non sempre a sinistra) in molte parti dell’Europa soprattutto del sud, è un dato di fatto oggettivamente riscontrabile a chi non sia sordo o cieco, o entrambi le cose. Che questo cambiamento (al di là delle diversità politiche locali) sia motivato dalla devastante (e fallimentare) politica dell’austerity, è altrettanto certo, così come stupisce (ma non troppo) l’ottusa impermeabilità del Palazzo di Bruxelles dove i “conti” tornano (si fa per dire) solo a un manipolo di economisti che mostrano quanto poco essi abbiano a che fare con una realtà in movimento che boccia le loro proposte come fallimentari.

Ovunque, nel vecchio continente, si afferma quella sinistra che sa intercettare i cambiamenti sociali in atto, che sa innervarsi con movimenti e conflitti, che sa confrontarsi con i nuovi protagonisti del cambiamento e, al tempo stesso, superare le vecchie divisioni politiche; che sa progettare futuri, intravedere nuove strade, offrire scenari alternativi a quelli tristi e miserabili dell’austerità europea, insomma, per dirla con una parola, che vuole tentare di capire il mondo e sta imparando a proporre nuove risposte.

Sembra quasi che ci sia una «saggezza» in ciò che accade nel sud d’Europa che supera le stanche analisi politiche, il chiacchiericcio dei partiti tradizionali, le loro insignificanti proposte di riforme che altro non sono che l’allineamento all’economia liberista.

Se fosse vivo Benjamin, il suo angelo della storia avrebbe visto ai propri piedi le nuove rovine dell’Europa, trascinato dalla tempesta di un’economia devastatrice senza più crescita e senza più sviluppo.
Immaginate questa scena: i governi nazionali europei, in balia delle loro crisi, hanno inviato, nel cuore del vecchio continente, in una triste e piovosa località che si chiama Bruxelles, i loro più noti scienziati economisti, insieme ai loro più quotati politici perché elaborino un piano di salvezza della vecchia Europa alla deriva. E costoro, bendati e sordi, anziché leggere il mondo che cambia, non fanno che riproporre ricette fallimentari, vecchie risposte destinate ad aggravare la crisi sociale, quella economica e quella ambientale. Non possono né sanno proporre altro essendo vissuti da sempre in una confortante realtà politica che va sgretolandosi giorno dopo giorno.

Fuori dal Palazzo, nelle grigie giornate di una città (e civiltà) decadente, i nuovi barbari alle porte gridano parole nuove mai sentite, linguaggi incomprensibili ai residenti del Palazzo che chiudono finestre e sbarrano porte a tutto ciò che non rientra nel loro modello di ordine mondiale. Ogni tanto, da una delle finestre del Palazzo, qualcuno si affaccia per gettare qualche moneta agli assedianti accampati fuori, ritenendo che essa possa almeno tamponare la pressione degli assalitori, sostituire la risposta politica che manca. E a ogni lancio cresce invece la folla che protesta, che grida le nuove parole d’ordine.

I saggi di Bruxelles dovrebbero assoldare un gruppo di interpreti che traduca loro quelle parole pronunciate non più in lingua inglese, né francese e neppure esperanto, ma in una lingua nuova comprensibile solo a chi è disponibile a sentirla.

Il Palazzo resiste, è costruito con solide mura trasportate in Europa dai paesi colonizzati e sfruttati; dentro il Palazzo non si sentono le urla di protesta, non si avvertono i miasmi di una crisi ambientale che avanza, non si scorge neppure quel mare “lontano” dove si dice (ma sarà poi vero?, pensano i saggi di Bruxelles) che affondano tante navi insieme ai loro carichi umani. Ma crepe vistose, direbbe Benjamin, si cominciano ad aprire sui suoi muri, crepitii all’inizio impercettibili di distacco delle pareti, inavvertiti cedimenti delle sue fondamenta, mentre i barbari, fuori da esso, cantano musiche nuove e ballano nuove danze.

E in Italia cosa succede? Ma come – qualcuno dirà – non eravamo proprio noi ad avere la sinistra più organizzata del continente? Com’è che da primi, siamo diventati gli ultimi? Cosa è successo di così grande da non essercene neppure accorti, scavalcati perfino, nella battaglia dei diritti civili, dalla cattolicissima Irlanda?

Il paese dei movimenti sociali più avanzati, della sinistra radicale che non aveva confronti nel resto dell’Europa, che vantava un partito ex comunista che pure ha grandi e nobili tradizioni; proprio noi come abbiamo fatto a non accorgerci che il mondo stava (sta) cambiando?

Forse è proprio questo grande patrimonio politico alle spalle che, ingessato e mummificato dalle vestali della sinistra, ci ha impedito di affacciarsi alla finestra per guardare il mondo che andava cambiando; una saggezza politica che si è trasformata in poco più di uno scialbo riassunto dell’esistente, credendo, a torto, di possedere il monopolio della verità; una massa inerziale priva di passione che ci ha impedito di capire il mondo, che ha innescato il trasformismo di grande tradizione culturale italiana: cambiare tutto per non cambiare niente.

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