Alias

Le note cosmiche della fantascienza

Le note cosmiche della fantascienzaL'album di debutto del 1967 di Leonard Nimoy, il signor Spock della serie tv «Star Trek»

Storie/Come la musica, classica, contemporanea, pop, jazz, hip hop, ha immaginato mondi e scenari «altri» Tante le colonne sonore ispirate da elettronica e computer music. Ripensando allo Space Age Pop degli anni Sessanta che tratteggiava i presunti ritmi dello spazio. Occhio a Sun Ra, pronto al decollo, e all'imbarazzo di Kubrick

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 17 aprile 2021

Musica e fantascienza: argomento curioso, intrigante, benché poco dibattuto nella cultura odierna, forse a causa della scarsa presenza quantitativa della prima sulla seconda, rispetto ad altri linguaggi espressivi. Va ricordato infatti che la science-fiction (SF) nasce, già a fine Ottocento, quale genere letterario, nella narrativa di consumo e, in quanto tale, viene declassata per decenni a fenomeno di serie B, ancor peggio quando si sviluppa, a livello di massa, nel cinema e nel fumetto. Anche nelle arti figurative la fantascienza viene relegata all’illustrazione popolare (in particolare le copertine di libri e riviste sull’argomento), mentre in pittura solo una corrente quale lo Spazialismo italiano postbellico – con Lucio Fontana, Gianni Dova, Cesare Peverelli, Piero Manzoni – può forse rapportarsi a un credo fantascientifico in una visionarietà mutuata direttamente dalle ricerche astrofisiche; ad appropriarsi della SF, con gesto citazionista, è la pop art degli anni Sessanta e di recente il pop surrealism e il graffitismo, quasi in parallelo a quanto accade nei mondi della tv, dei videogiochi, della computer graphic. La musica in parte risulta la bella «grande assente», a causa della natura intrinseca di linguaggio astratto, dove la materia affabulatoria e la descrizione obiettiva vengono, quando necessario, delegate alla parola letteraria.
Sembra tuttavia possibile costruire una breve storia dei rapporti diretti tra suoni veri e mondi immaginati, sulla base di quanto raggiunto dall’incontro via via fortuito o programmato tra le diverse estetiche della modernità novecentesca. Il cinema, anzitutto, che esprime, grazie al potere della messa in scena, un immaginario (audio)visuale su un futuro perlopiù ammantato di utopie negative o catastrofismi apocalittici, rinunzia però, nel corso degli anni, a giovarsi dei progressi anche tecnologici per i commenti musicali. Mentre i soggetti, i dialoghi e il visivo (scenograficamente trucchi, abiti, macchine, oggetti, architetture, paesaggi) costruiscono e mostrano un futuro più o meno plausibile, lo score rimane legato a vecchi stereotipi. In altre parole la musica nei film di SF purtroppo non è fantascientica. La sequela dei lungometraggi «culto» da Metropolis a Matrix, passando attraverso King Kong, L’invasione degli ultracorpi, Godzilla, Alien, E.T. eccetera, è costellato di capolavori figurativi, la cui soundtrack, però, risulta fin troppo convenzionale o addirittura ridicola, se si pensa ad esempio alla saga di Guerre stellari con le partiture di John Williams: un sinfonismo tronfio, per nulla ironico anche rispetto ad alcune sequenze magistrali. L’unica pionieristica eccezione che non ha quasi seguito è la pellicola Il pianeta proibito (1956) di Fred M. Wilcox, regista di b movie, con la musica elettronica di Bebe e Louis Barron, nel cui studio di registrazione orbitano geniali sperimentatori come Morton Feldman, Earle Brown, David Tudor e soprattutto John Cage che incoraggia la coppia nel lavoro.

UN CLASSICO
Paradossalmente è 2001: Odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick a trasformare in fantascientifica la musica classica adoperata per sottolineare almeno tre momenti clou: l’Also Sprach Zaratustra op. 30 di Richard Strauss viene usato due volte, specularmente, a indicare la nascita e la fine dell’umanità; Sul bel Danubio blu di Johann Strauss figlio, serve satiricamente per il balletto delle astronavi; e l’inquietante Lux Aetherna di György Ligeti sottolinea il viaggio allucinante dell’astronauta Bowman nell’episodio Giove e oltre l’infinito. Non è un caso che, appena dopo l’uscita, la pellicola ispiri a un quasi esordiente David Bowie la canzone Space Oddity; tre anni dopo il misterioso obelisco che fa da leitmotiv all’intero film è posto al centro della copertina Who’s Next degli Who, che lo usano da orinatoio, facendo così tanto arrabbiare Kubrick che si sottrarrà a girare la versione cinematografica della loro fanta-rock opera Tommy (lasciandola a Ken Russell); anche l’album Presence (1976) dei Led Zeppelin ha l’obelisco al centro di un tavolinetto da bar, mentre nel concept Amused to Death (versione 2015) di David Gilmour vengono usate le frasi di Hal 9000 e scritto il verso «La scimmia sedeva su un mucchio di pietre e fissava l’osso rotto nella sua mano» in riferimento alle scene iniziali.
Prima del rock e del pop, sono la musica colta sia strumentale sia operistica a flirtare con la fantascienza letteraria, mentre i compositori che meglio interpretano le immagini cinematografiche – l’inglese Arthur Bliss per La vita futura (1935), l’hitchcockiano Bernard Herrmann per Ultimatum alla terra (1951), il giapponese Toshiro Mayuzumi per La strada della vergogna (1956), il russo Eduard Artemyev per Solaris (1972), l’americana Wendy Carlos per Arancia meccanica (1972) – sembrano estranei e disinteressati, al di fuori del set, a un argomento che sempre più appassiona sia gli intellettuali sia le masse di tutto il mondo: forse per questo le dittature del XX metteranno all’indice la science-fiction medesima, riscattata in musica dalla fantascienza mentale antinazista di The Wall dei Pink Floyd e prima ancora dalla triste vicenda dell’Imperatore di Atlantide.
Qualche critico etichetta come primo esempio «classico» di sonorità fantascientifica The Planets Op. 32 (1916) dell’inglese Gustav Holst il quale descrive o meglio evoca i sette pianeti allora conosciuti del sistema solare attraverso un grande poema sinfonico dal gusto post-romantico, tra Mahler e Schönberg, basato più sulle passioni per astrologia e teosofia che sui libri di Jules Verne o H.G. Wells. Ma è il futurismo italiano a pensare, come per tutte le arti, anche all’avvenire della musica (e/o alla musica dell’avvenire), architettando inediti modelli comunicativi e al contempo immaginando una società di corsa, proiettata in avanti: la SF qui traslata, più o meno consapevolmente, in un paio di manifesti teorici ottiene un concreto pendant utopico nell’invenzione di uno strumento come l’intonarumori di Luigi Russolo, a prefigurare i sintetizzatori di mezzo secolo dopo. A seguire, le ricerche in ambito sia organologico sia avanguardista tra gli anni Dieci e Sessanta – così come vengono esaurientemente analizzate, nel 1963, dal tedesco Fred K. Prieberg in Musica ex machina – sfruttano l’elettricità (e poi l’elettroacustica) per creare strumenti inusuali e suoni inauditi che però, erroneamente, vengono spacciati e derisi, dal gossip, quale «roba da fantascienza». Il disprezzo dei media, salvo alcune radio di stato europee, verso giovani correnti quali la musique concrète e l’electronic music, elude le intenzioni dei pionieristici autori – Pierre Henry, Pierre Schaeffer da un lato, Luciano Berio, Karlheinz Stockhausen, Bruno Maderna, Pierre Boulez dall’altro – che invece si battono per un’arte attuale, impegnata nel tempo reale. Accusati di essere troppo fantascientifici, verso direzioni antimusicali, gli esponenti delle suddette neoavanguardie, invece, pretendono di essere rispettati quali musicisti del presente, caricando ulteriormente la propria ricerca di una contemporaneità assoluta che, di sicuro, azzera il passato, ma che, altrettanto verosimilmente, esige di restare nell’oggi.
Debitori più o meno consapevoli della produzione dotta elettronica risultano soprattutto il rock già coevo e dagli anni Novanta correnti giovanili eterogenee dal noise all’ambient, dalla techno all’industrial, in grado talvolta di collegarsi alla SF letteraria e cinematografica: non è un caso che punk e cyberpunk vantino un’origine comune non solo etimologica, ma pure in chiave socioculturale (e in funzione anti Thatcher) con il motto «nessun futuro nel segno inglese»!

AUDIO STREAMING
Ma su musica e fantascienza occorrerebbe forse parlare anche di computer music, vista l’ormai abbondante presenza della cibernetica nella fiction, citando le iniziali esperienze di interazioni tra la «macchina» e la creatività, risalenti ai primissimi elaboratori degli anni Cinquanta, che vedono protagonisti lo statunitense Lejaren Hiller con la Illiac Suite (1957) e soprattutto l’italiano Pietro Grossi, il quale, nel 1963 fonda lo studio di Fonologia musicale di Firenze e quattro anni dopo compie le prime esperienze ufficiali di computer music presso la Olivetti General Electric per arrivare a GE-115 Computer Concerto (1968) e all’antesignano «audio streaming» della storia con la prima esperienza di musica telematica in assoluto tra la Fondazione Manzù di Rimini e il Centro nazionale universitario di calcolo elettronico di Pisa (1970). Diverso ancora il discorso sulla robotica culminante, nel 2013, con Yoichiro Kawaguchi (docente universitario di Information Technology) e Naofumi Yonetsuka (designer e progettista), fondare la band di automi Z-Machines: i robot Mach, Ashura e Cosmo (chitarra, tastiere e batteria, messi a punto nei laboratori della Tokyo University) suonano rock dal vivo davanti a un pubblico incredulo!
In tale contesto di estetiche postmoderne viene collocata anche la minimal music statunitense, di cui Philip Glass è il massimo esponente, attratto da temi fantascientifici riversati soprattutto in opere liriche quali The Making of the Representative for Planet 8 and the Marriages Between Zones Three, Four and Five (basate sui libri di Doris Lessing), The Voyage (ispirato da Stephen Hawking) e in parte la celeberrima Einstein on the Beach (assieme al regista Bob Wilson). Del resto il melodramma può vantare fin dal 1875 un apripista con Le voyage dans la lune tratto dal libro di Jules Verne e musicato da Jacques Offenbach, rimasto famoso per il ballo Can can. Durante il XX secolo, purtroppo, i temi dei libretti (ispirati a romanzi famosi) sono decisamente più fantasmagorici della musica stessa, come si deduce ad esempio da L’affare Macropulos (Leos Janacek), Help, Help, the Globolinks! (Gian Carlo Menotti), 1984 (Lorin Maazel), La mosca (Howard Shore), Doctor Ox’s Experiment (Gavin Bryars).
C’è però, lungo il Novecento, emblematico, un melodramma breve, il summenzionato L’imperatore di Atlantide ovvero Il rifiuto della morte, dove la SF diventa o oltrepassa la realtà, a causa del proprio concepimento: scritta nel 1943 da Viktor Ullmann su libretto di Peter Kien, durante la prigionia nel ghetto di Theresienstadt (Terezin), nel marzo del 1944 si tengono le prove con il direttore d’orchestra Rafael Schächter per la rappresentazione sul palcoscenico dell’adiacente Sokolhaus, dove i nazisti consentono ai prigionieri ebrei di fare musica, facendo del finto lager-modello uno «specchietto per le allodole» della Croce Rossa internazionale; la censura guarda però al protagonista, l’imperatore Overall (anglismo per Über Alles), come oggetto di satira verso il totalitarismo; come quasi tutti gli artisti in loco, il 16 ottobre 1944 Ullmann e Kien vengono trasferiti a Auschwitz dove vengono uccisi in una camera a gas forse un giorno o due dopo; la partitura, scomparsa, verrà ritrovata ed eseguita solo nel 1975!
La fantascienza e la musica, però, entrano a braccetto a parteggiare l’immaginario collettivo in due fasi distinte nel secondo Novecento. La prima riguarda la conquista dello spazio con le due superpotenze Usa e Urss ostinate nella guerra fredda persino a suon di navicelle in orbita, dallo Sputnik fino agli allunaggi delle missioni Apollo. L’impresa di Neil Armstrong solitario, quasi a mo’ di contrappasso dantesco, cede allegoricamente il testimone, un mese esatto dopo il 16 luglio 1969, al primo megaraduno giovanile, associato a una kermesse musicale (Woodstock) dove il mezzo milione di hippie, che plaude a Hendrix, Santana o CSN&Y, sul piano filosofico più che coinvolto dai viaggi della Nasa, vola con la mente a guardare, con occhio visionario e con filtri allucinogeni, le stelle o le galassie in cielo, identificandosi piuttosto con l’Era dell’Acquario di Rudolf Steiner (trasposta anche nel rock musical Hair) a credere in solidarietà, democrazia, fratellanza, ecologia. In mezzo, però fra lo Sputnik e l’Apollo 11 c’è la cosiddetta era spaziale (conseguenza «pacifica» dell’era atomica) che, sul piano della quotidianità, ben oltre la ricerca scientifica, investe interi settori della vita giornaliera: uno stile di design americano, denominato bolidista, influenza nel tempo le forme del vestiario, delle automobili, dell’arredamento, delle stoviglie o dei packaging e dei gadget più impensati, ispirandosi, direttamente, alle tute degli astronauti (o cosmonauti alla sovietica), alle silhouette dei missili, alla meccanica dei satelliti artificiali, ai quadri luminosi di enormi calcolatori, agli interni delle sale di controllo, da cui partono i comandi per i voli oltre l’atmosfera terrestre. In questo coinvolgimento estetico/emotivo, non può mancare la musica ed ecco lo space age pop – di cui Francesco Adinolfi fornisce analisi e documentazione esaustive nel libro Mondo exotica. Suoni, visione e manie della Generazione Cocktail (Einaudi, 2000; e in ristampa il prossimo maggio da Marsilio) – abile a sfruttare la forma-canzone, aggiornandola di effetti sonori che oggi appaiono storicamente vintage, ma che all’epoca sembrano proiettati verso un roseo XXI secolo dove l’umanità vanterebbe ormai numerose colonie sulla Luna e su Marte (e forse su qualche asteroide).

ESPLORAZIONI
Lo space age pop, costola avvenirista del generale movimento lounge, è la fantascienza musicale in grado di simboleggiare forse più il moderno sfrenato consumismo che le sincere novità tecnologiche o le incessanti scoperte dell’astrofisica e dell’astronomia. Iniziato ufficialmente con l’album Music out of the Moon (1947) di Les Baxter, lo space age pop è un metagenere, in cui possono convergere anche sonorità collaudate, dal jazz al rock, talvolta riconvertite dalle strategie di marketing ai soli titoli in copertina come accade al celebre lp The Cosmic Scene (1958) di Duke Ellington, con l’orchestra rinominata Spacemen, ma dal consueto geniale repertorio solo parzialmente aggiornato, nei ritmi più veloci rispetto al suo jazz originale. E a proposito di jazz non va scordato il caso di Sun Ra, anch’egli pianista, compositore e bandleader di formazioni dai nomi fantasiosissimi (un’Arkestra di base che diventa Astro Intergalactic Infinity, Cosmo Discipline, Solar, Intergalactic Research, Myth Science) che fa di una fantascienza imparentata a egittologia, esoterismo, fantarcheologia, cosmologismo, ufologia un tratto essenziale di un free spettacolarizzante, dalla forte impronta performativa (come nel coevo teatro off off), che i dischi, pur dai titoli eloquenti (The Nubians of Plutonia, The Heliocentric Worlds, Interstellar Low Ways, Space Is the Place) restituiscono solo in parte la fascinazione coreutica del live set. Sun Ra sarà anche l’originatore dell’Afrofuturismo, una sensibilità afroamericana teorizzata negli anni ’90, che si appropria di immaginari tecnologici e di un futuro profetico. Al suo interno coesistono George Clinton e i suoi Parliament/Funkadelic, Afrika Bambaataa e in tempi più recenti Janelle Monae, Andre 3000, Beyoncé e altri artisti neri, perlopiù legati a ambiti hip hop. Gli artisti rimarcano il loro diritto alla fantascienza, ambito (letteratura, cinema, tv) da cui nel 20esimo secolo i neri sono stati sistematicamente esclusi dalla cultura dominante bianca. In pratica: se non sei bianco non puoi avere un ruolo cruciale nella visione di nuovi futuri. La seconda decisiva fase per rinsaldare i rapporti fra musica e fantascienza avviene a metà degli anni Sessanta, in cui diventa realistico e «naturale» l’interesse per l’esplorazione ormai frenetica dello spazio lunare: per contro tanto il rock quanto la SF (letteraria e in parte cinematografica) si concettualizzano. A livello narrativo, suoni, parole, immagini diventano autoriali, trovando spesso riuscite metafore per trattare surrealisticamente il mondo odierno sotto le mentite spoglie di scenari prossimi venturi: non a caso i romanzi SF dai Sixties in poi iniziano a occuparsi anche di rock, facendone spesso, sul piano dei contenuti, un protagonista assoluto come accade a Micheal Moorcock – anche musicista e futuro sostenitore dello space rock assieme alla band inglese Hawkwind – il quale pubblica Programma finale (1965), primo romanzo del ciclo di Jerry Cornelius antieroe tutto sesso, droga e rock’n’roll; e a Samuel R. Delany in Corona (1967) dove il cantante Bryan Faust è il primo modello di rockstar del futuro.
Ma sul finire del decennio emerge il cyberpunk, neologismo del critico Gardner Dozois per indicare William Gibson, Bruce Sterling, Lewis Shiner, John Shirley, Pat Cadigan, romanzieri che «esibivano – come nel 1994 spiegano Daniele Brolli e Antonio Caronia – un forte legame con la cultura pop, facendone non solo uno sfondo delle loro opere, ma un vero e proprio elemento narrativo (…) Acquistava un valore centrale la musica rock, che era stata elemento di sfondo solo in alcuni momenti in alcuni autori della new wave, ed era stata invece da sempre esclusa e guardata con sospetto dagli autori della fantascienza tradizionale, in quanto elemento spurio e incompatibile con le visioni tecno-futuriste».
Il rock in effetti dal canto suo, nel giro di pochi anni, grosso modo tra il 1965 e il 1975, compie una metamorfosi estetica incommensurabile, divenendo il magico recettore di stimoli culturali ultra-immaginifici, dove anche la SF è un elemento cardine della controcultura giovanile in cui, a loro volta, misteriose galassie e universi espandibili (o paralleli, chiusi, infiniti) sono pretesti (o contesti) per folksinger, popstar e rock band nel cantare utopie rivoluzionarie oppure misticismi esistenziali. Basti pensare, in tal senso, alle strette relazioni tra la nuova fantascienza e un fenomeno come la psichedelia – non solo nella musica rock ma anche in pittura, design, cinema, ecologia, decorazione, autoanalisi – proiettata verso un futuro multicolore dai confini incerti a riformulare o capovolgere persino le teorie di Albert Einstein sulle possibili (e molteplici) dimensioni spaziotemporali.
A collegare il rock alla SF pensano soprattutto alcuni musicisti europei lungo i primi Seventies, all’interno della grande corrente progressive (Pink Floyd, ELP, Genesis), lanciando dapprima lo space rock britannico (i citati Hawkwind) e, poco dopo, la kosmische musik tedesca (Can, Tangerine Dream, Cosmic Jokers, Kraftwerk); e in parallelo anche una variante, udita con sospetto come il glam rock, fornisce al mondo un evento epocale oggi definibile come spettacolare mediaticità: il disco e la tournée Ziggy Stardust segnano un punto di non ritorno che farà scuola al di là del rock e della science-fiction, come pure all’interno di due grandissime culture che, separate o unite, forniranno capolavori a raffica da allora a oggi (Frank Zappa, Magma, Paul Kantner, Rush, Radiohead, Flaming Lips, Daft Punk, Gorillaz) per l’umanità presente e «futura»…

FUORI I DISCHI

Pink Floyd The Piper at the Gates of Dawn (1967)
Leonard Nimoy Presents Mr. Spock’s Music from Outer Space (1967)
Can Monster Movie (1969)
Paul Kantner & Jefferson Starship Blows Against the Empire (1970)
Tangerine Dream Electronic Meditation (1970)
Emerson, Lake & Palmer Tarkus (1971)
Hawkwind In Search of Space (1971)
David Bowie The Rise and Fall of Ziggy Stardust and The Spiders from Mars (1972)
Magma Mekanïk Destruktïw Kommandöh (1973)
The Cosmic Jokers Sci-Fi Party (1974)
Rush 2112 (1976)
Kraftwerk The Man-Machine (1978)
Rockets Galaxy (1980)
Frank Zappa Thing-Fish (1984)
Iron Maiden Somewhere in Time (1986)
Radiohead Ok Computer (1987)
Daft Punk Discovery (2001)
The Flaming Lips Yoshimi Battles the Pink Robots (2002)
Karlheinz Stockhausen Cosmic Pulses (2007)
Gorillaz Plastic Beach (2010)

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento