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Le musiche al presente

Le musiche al presente«Nox», lo spartito disegnato sul corpo, un'opera fotografica di Jacopo Baboni Schilingi

Pagine/Due libri si interrogano sul futuro della ricerca sonora. Abbiamo sentito gli autori Renzo Cresti e Carlo Boccadoro raccontano un mondo in evoluzione, tra tecnologie soffocanti e urgenza di nuove prospettive culturali

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 14 marzo 2020

La recente uscita del libro di Renzo Cresti Musica presente. Tendenze e compositori di oggi (Libreria Musicale Italiana, 2019) sembra già destinata a creare uno spartiacque fra un prima e un dopo della ricerca sonora italiana, in un ambito vecchio ormai più di un secolo, se si prende il futurismo di Luigi Russolo e Balilla Pratella come inizio di un percorso che non trova tuttora una definizione etimologica che metta tutti d’accordo, autori, interpreti, critici, musicologi, filosofi.
PIÙ IDONEO
Si parla di musica contemporanea, classico-moderna, sperimentale, avanguardista, ma forse l’aggettivo più idoneo sembra proprio quel presente con cui lo stesso Cresti dà il via a uno studio di oltre mille pagine, come egli stesso racconta in una lunga esclusiva intervista: «Solo l’indice è di 21 pagine e la premessa di 84. La prima parte è dedicata ai musicisti nati negli anni Cinquanta, in pratica già un libro a sé: sono 377 pagine, 224 i compositori analizzati e 112 quelli citati. La parte seconda prevede musicisti di area classica con 260 compositori analizzati e 200 quelli citati; e jazz grazie a ben 357 pagine di cui un centinaio dedicate ai jazzisti, con 291 musicisti analizzati e 262 citati. La terza parte analizza i musicisti delle ultime generazioni, compresi alcuni gruppi di rock progressive: 72 i giovani compositori di area classica analizzati più 180 i citati, mentre sono una trentina i gruppi progressive, ma gli intrecci fra classico contemporaneo, jazz e rock corrono per tutto il libro, intrecciandosi anche alla musica elettronica a quella cinematografica e altro ancora». Per il sessantasettenne fiorentino, Musica presente equivale simbolicamente a uno scritto autobiografico, dove convergono passioni artistiche, qualità erudite, impegno professionale, per un lavoro davvero unico, dalle molteplici urgenze culturali che spingono Cresti a mappare il territorio musicale italiano a livello di compositori, trovando all’inizio, decine, poi centinaia infine, in tutto, ben duemila individui che si possono fregiare di questo titolo: «È da quando ero studente che frequento l’ambiente dei compositori, ho studiato con Franco Donatoni e Aldo Clementi, sui quali ho scritto le prime monografie edite, poi ho frequentato Niccolò Castiglioni e molti allora giovani compositori, contemporaneamente mi avvicinavo al jazz grazie a Giorgio Gaslini, senza dimenticare l’ambiente fiorentino, Sylvano Bussotti e molti altri e, perché no, le mie esperienze di bassista nei gruppi rock di fine anni sessanta inizio settanta. Mezzo secolo di esperienze!».
GIUDIZIO TRANCIANTE
A differenza di altri testi sul medesimo argomento, spesso di musicisti desiderosi anche di esternare gusti personale e giudizi trancianti, Musica presente non è un manuale di conferme e sorprese e nemmeno di buoni e cattivi, bensì una ricognizione a tutto campo su quanto espresso dalla ricerca sonora – al di fuori dei circuiti pop – grosso modo dagli anni Settanta del XX secolo: «So che i nomi attirano più delle riflessioni e delle tendenze, ma il libro vuole esporre la molteplicità e la ricchezza delle situazioni. Per quanto riguarda i singoli compositori ovviamente vengono analizzati secondo le prospettive messe in gioco nel volume. Non amo quei musicisti che si avvicinano al mercato, alla musica commerciale, i neo-melodici, i neo-romantici, i neo-qualunquisti, mi interessano invece quei musicisti che mettono in pratica un pensiero critico». Volendo invece fare qualche nome, utile per meglio orientarsi, nella prima parte teorica Cresti introduce i concetti di ipermoderno, post-verità, area, orizzontalità, anti-metodologia, nella seconda invece preferisce ragionare, per ciascun musicista, anche in termini di categorie più o meno espanse: ad esempio sinfonismo operistico (Giorgio Battistelli), elettronica popular (Roberto Cacciapaglia), intercodici (Luigi Ceccarelli), new age (Ludovico Einaudi), foto-suono (Riccardo Piacentini), musica bugiarda (Luca Gregoretti), musica ecologica (Michele Biasutti), polifonia affollata (Massimiliano Viel), Concinnitas (Alberto Colla), classicismo pop (Tiziano Benedetti) ecc.
LA DOMANDA
Risulta ovvio, quindi, che sin dalle prime pagine di Musica presente, la domanda che sgorga spontanea è su dove stia andando la musica italiana da circa mezzo secolo in qua: la risposta di Cresti, in sintesi, è che si tratta di una realtà consolidata «come dimostrano i numeri di questo libro, assai ricca di esperienze, a 360 gradi, ce n’è per tutti i gusti. In due parole si nota un buon livello tecnico, ma la tecnica è necessaria ma non sufficiente, perché occorre anche fornire prospettive sia dal punto di vista squisitamente musicale sia da quello culturale e sociale».
E in tal senso, man mano che la lettera procede verso l’attuale presente – il XXI secolo – la netta impressione è quella che i musicisti odierni abbiano perso il coraggio «politico» dei loro colleghi di quaranta, cinquant’anni prima: «Non è una sensazione, è una certezza; è evidente che l’aspetto socio-politico è diventato minoritario e questo è uno dei problemi della musica del presente, troppi musicisti si rinchiudono nel loro rassicurante hortus conclusus e non si confrontano, anzi, hanno paura del confronto sociale».
La differenze sono anche altre fra il presente e l’altro ieri: negli anni Sessanta-Settanta Luigi Nono o Luciano Berio o Sylvano Bussotti sono noti a tutti, nel senso che ne parlano giornali o telegiornali. O magari – come nel caso di Berio, con C’è musica e musica del 1972 alla Rai, per fortuna, riedito su libro-dvd – conducono programmi dal piccolo schermo. Oggi invece non esistono più dei loro equivalenti, se non pessimi succedanei, come Giovanni Allevi («atmosfere simili a quelle del ‘re del feeling’ Stephen Schlaks»); e le ragioni sono chiarissime: «Non è perché sia decaduta la qualità tecnica che, al contrario, è piuttosto alta. Quasi tutti sono diplomati in conservatorio oppure hanno seguito corsi, eccetera, eccetera, ma ciò che manca è il coraggio di affrontare tematiche importanti, molti si sono lasciati risucchiare, più o meno consapevolmente, dall’omologazione che, in questi ultimi anni, è stata ed è fortissima. Il mercato è il vero Dio odierno, ovviamente c’era anche negli anni Sessanta (e Settanta) ma lasciava aperti dei pertugi nei quali la creatività poteva inserirsi, mentre oggi il dominio della musica massificata è pressoché totale».
L’ANTIDOTO
Nel pensare agli antidoti concreti al dilagare di musicaccia pop ovunque, Cresti confessa: «Occorrerebbe un cambio di epoca culturale, l’impegno del musicista di buona volontà non è sufficiente, è un problema sostanzialmente politico e, come annoti giustamente, globalizzato. Inoltre, si aprirebbe una lunga parentesi sulla scarsa educazione musicale che la nostra scuola fornisce. Infine, i condizionamenti legati ai mezzi di comunicazione di massa che accalappiano i giovani con musiche usa e getta». Emerge allora un altro grosso problema, riguardante l’idea del contemporaneo e nel caso specifico della musica presente: se ritenere ancora valido o credibile l’assioma di tanta cultura media (per non dire mediocre, propugnata dai luoghi comuni e dalla stampa borghese) in cui musica contemporanea voglia dire suoni difficili, elitari, incomprensibili.
Per Cresti la musica difficile esiste da sempre: «Nel Rinascimento veniva chiamata ‘musica reservata’. La musica di Bach o quella di Beethoven mica è facile. È venuta meno una lingua comune e quindi, per il pubblico medio, è diventato più difficile seguire la musica. Inoltre, per esigenze storiche, la musica del secondo dopoguerra, anni Quaranta-Settanta, è stata legata a una ricerca tecnica che il pubblico non poteva capire, ma oggi è diverso, non c’è più quel bisogno di sperimentare e le musiche degli ultimi decenni hanno riscoperto il problema dell’ascolto. Nel mio libro ho proposto di abbandonare il termine ‘musica contemporanea’ perché legato agli anni dello sperimentalismo e usato oggi è fuorviante, spaventa la gente, mentre la musica del presente è più ascoltabile avendo recuperato l’elemento della percezione».
Forse oggi gli unici giovanissimi «resistenti» appaiono gli studenti dei licei musicali e più ancora gli allievi di conservatorio, benché vi sia ancora molto da costruire attorno a loro e assieme a loro, onde avere almeno basi solide per un’effettiva cultura musicale. «Fanno testo, ma sono una minoranza – conclude Cresti – perché il conservatorio è sempre stato considerato una scuola a sé, e anche la riforma è partita dell’alto, parificando, in un certo senso, i corsi dei conservatori a quelli universitari, mentre ha lasciato problemi enormi alla fase precedente all’entrata in conservatorio, ma è da lì che occorre partire per costruire una cultura musicale, dall’asilo e dalle elementari. Ma forse, per le ragioni che si sono esposte, al mercato va bene l’ignoranza perché così può condizionare facilmente il consumo della musica. Bisogna uscire dall’omologazione e solo con un pensiero critico attivo questo è possibile, ma questo pensiero va coltivato. In fondo, il mio libro serve anche a questo».
I MAESTRI 
Se Cresti, durante l’intervista, è restio a fare i nomi, si può comunque confrontare l’indice del libro per intuire come egli affidi gli inizi e l’epilogo (provvisorio) di questo percorso a pochi compositori (cinque in tutto), mentre la rappresentanza di mezzo è assai più numerosa per quel che concerne i «maestri» (dieci): dunque la generazione del 1950 riguarda tra i big anzitutto Lorenzo Ferrero, Alessandro Melchiorre, Gianfranco Pernaiachi. I nati durante i Sixties ai quali in Musica presente è riservata grande importanza sono in ordine alfabetico Sonia Bo, Aldo Brizzi, Paola Ciarlantini, Fabio Cifariello Ciardi, Fabrizio de Rossi Re, Marco Lombardi, Andrea Mannucci, Andrea Nicoli, Riccardo Nova, Biagio Putignano. Infine il clou del presente-presente è ricordato attraverso due musicisti: Alessandra Bellino e Jacopo Baboni Schilingi.
ESEMPI CONCRETI
Tanto Cresti è parco di citazioni, quanto Carlo Boccadoro, compositore, musicologo, polemista è ricco nel formulare esempi concreti, non solo quando sollecitato durante l’intervista, ma anche e soprattutto nel suo recente pamphlet Analfabeti sonori. Musica e presente per le Vele Einaudi, che sembra fare da pendant o meglio ribadire la teoria degli opposti che alla fine possono integrarsi nella lotta «contro il nemico comune». Già in copertina l’autore parte da una constatazione e da una domanda: «Le nuove tecnologie hanno creato una rivoluzione anche nella musica. Come evitare che soffochino la creatività dei compositori e riducano gli ascoltatori all’analfabetismo?». La risposta o le risposte, lungo 90 pagine cariche di rimandi a esperienze personali e ad ascolti variegati (compresi jazz, rock, soul) non sono certo ottimiste, se fin dalla prefazione del libello Boccadoro constata che «la stragrande maggioranza di persone in questo paese vive in un mondo dove qualsiasi musica non appartenga alla sfera popolare (con conseguente supporto fornito dai media) ha una visibilità decisamente ridotta». Tuttavia a chiedergli quale e come sia oggi il compositore nell’era di Internet, Boccadoro afferma candidamente: «Quello che è sempre stato in tutte le ere: qualcuno che cerca di scrivere note possibilmente non a vanvera».
Si tratta di un compositore, la cui opera, di questi tempi, non simboleggia grandi ideali o spinte particolarmente innovative o ancora tendenze nette e riconoscibili, giacché su dove stia andando la ricerca musicale, egli dice con altrettanta sincerità: «Non ne ho idea, e se c’è qualcuno che dice di saperlo sta mentendo».
La questione centrale per Boccadoro non è tanto sapere quanto la musica «classica» contemporanea continui a essere più o meno «elitaria», perché a suo avviso: «Non è più elitaria di Palestrina, Monteverdi, Bach, Britten, Mozart o Beethoven. Avete sentito fischiettare da qualcuno la Grande Fuga o la Messa in Si minore?Avete sentito parlare in tv o sui quotidiani di Mitridate, Re di Ponto o di Gloriana? Io no».
E il compositore e musicologo vuole altresì sfatare un luogo comune di molta critica, quando un po’ nostalgicamente, ritiene che negli ultimissimi anni non siano più emersi musicisti come John Cage, Luciano Berio, Karlheinz Stockhausen, Pierre Boulez, Pierre Henry, Terry Riley che negli anni Sessanta e Settanta sono stati amati anche dai colleghi jazz e rock (con i quali talvolta riescono persino a collaborare). Oggi, pur con i dovuti «distinguo», la situazione è analoga o quantitativamente più fruttuosa e scambievole: «Autori come David Lang, Philip Glass, Gavin Bryars, Steve Reich, Mark-Anthony Sturnage, Michael Nyman collaborano con The National, Radiohead, Pet Shop Boys, Natalie Merchant, Peter Gabriel, Tom Waits, Dave Holland, Bill Frisell, John Scofield, Joe Lovano e ce ne sono moltissimi che sono conosciuti nell’ambito rock e jazz».
Oggi, inoltre, sono in molti a sostenere che esistono decine o centinaia di pur bravi musicisti in tutti questi ambiti, una volta definiti extracolti, ma nessuno possiede l’autorevolezza (tra l’altro acquisita sul campo) di un John Coltrane, un Miles Davis, un Frank Zappa, un Jimi Hendrix. E questi molti si chiedono se sia una questione di distanza storica o se vi sia dell’altro. Ma per Boccadoro è un falso problema: «In realtà non possiamo sapere adesso cosa resterà tra 30 o 50 anni, quindi non mi porrei oggi la questione».
LA SMANIA
Attualmente diversi giovani compositori, per opportunismo o furbizia (smania di successi immediati ecc.) insistono molto sul linguaggio tonale e su un’idea fondamentalmente consolatrice della musica classica per attrarre nuove audience, dimenticando l’ascolto come impegno civile, se non politico, che caratterizza sino agli anni Ottanta autentici geni quali Krysztof Penderecki, il gruppo Fluxus, Luigi Nono, Cornelius Cardew, John Adams. Per non parlare dell’antefatto storico, ossia la dodecafonia, la Scuola di Vienna, in particolare Arnold Schönberg e Anton Webern, che il filosofo e sociologo Theodor W. Adorno giudica i soli a proporre un’estetica musicale autenticamente rivoluzionaria. In realtà oggi quel tipo di avanguardia storica sembra così rimossa e dimenticata da interrogarsi sull’eventuale utilità di un ritorno allo studio delle teorie adorniana, ma Boccadoro appare perplesso: «Che il cielo ci scampi da Adorno e dai suoi discepoli. Per carità. Non auguro la lettura di quella roba al mio peggior nemico!». Rimane alla fine da rispondere alla classica domanda «Che fare?» che già Lenin pone nel 1902 con il suo proverbiale libro omonimo: se alla politica si sostituisce la musica o qualsiasi altra forma di cultura, il discorso funziona benissimo; il leader russo propone, infatti, la formazione di un partito rivoluzionario composto da un’avanguardia operaia, in cui partecipano rivoluzionari di professione, ritenendo che il proletariato sua sponte arrivi solo a una coscienza mediana, e che soltanto un partito possa dirigere una rivoluzione socialista «scientifica», dunque con la coscienza di classe introdotto solo «dall’esterno». E quando Boccadoro, a conclusione di Analfabeti sonori, si augura che vi siano «ascoltatori disposti a conservare l’elasticità mentale per sapere attraversare i differenti universi che si apriranno davanti a loro ogni volta che decideranno di essere liberi da vecchi condizionamenti per dare fiducia a compositori che vanno dall’antichità a oggi, e che li aspettano ogni giorno, a qualsiasi ora, per rendere la vita un’esperienza migliore», avrebbe forse bisogno di un’avanguardia culturale che nelle scuole o sui media, inizi a dirigere una rivoluzione nel conoscere e riconoscere la musica, introducendo una coscienza della percezione verso un mondo in cui tutti possano ascoltare e poi scegliere fra Vivaldi e Mingus, Rossini e Bob Dylan, Shostakovic e Arvo Pärt, il tango argentino e il gamelan balinese.
FUORI I DISCHI
Ecco 16 compositori nati nell’arco di un trentennio, con un’attività manifestatasi negli ultimi trent’anni, concentrata in questo caso soprattutto lungo i Novanta già ampiamente storicizzabili (o di fatto storicizzati), a dimostrazione di quanto sostiene Boccadoro sulle distanze cronologiche che separano il passato dall’attualità. Benché la musica si debba ritener e sempre e comunque «musica presente», si tratti di Orlando di Lasso, Robert Schumann o Charlie Parker.
Elliott Sharp (classe 1951), Twistmap (1991)
Wolfgang Rihm (1952), Jagden und Formen (2001)
Simon Bainbridge (1952), Ad ora incerta (1997)
Michael Daugherty (1954), Metropolis Symphony (1994)
Carl Vine (1954), Complete Symphonies 1-6 (1996)
Tan Dun (1957), Water Concerto (2009)
Bernhard Günter (1957), Un Peu De Neige Salie (1998)
Magnus Lindberg (1958), Aura-Engine (1998)
James MacMillan (1959), Veni, veni Emmanuel (1997)
Otomo Yoshihide (1959, Cathode (1999)
Giovanni Sollima (1962), Violoncelles, vibrez! (1998)
Jaakko Mäntyjärvi (1963), Canticum: Choral Music (2014)
Ryoji Ikeda (1966), + / – (1996)
Julian Anderson (1967), Book of Hours (2005)
Thomas Adès (1971), Asyla (1998)
Missy Mazzoli (1980), Vesper from a Dark Age (2019)

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