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Le mura e lo tsumani, una mostra tra le crepe

Le mura e lo tsumani, una mostra tra le crepeUno scatto dall'esposizione "Wall Endings"

Maboroshi Una piccola mostra organizzata nelle settimane scorse alla Epsite Gallery di Tokyo, intitolata "Wall Endings", raccoglie una serie di scatti delle mura protettive contro eventuali onde anomale future

Pubblicato 2 mesi faEdizione del 19 luglio 2024

Lo tsunami che l’undici marzo del 2011 ha devastato le zone del Giappone nord orientale ha portato con sé onde che hanno toccato fino ai venti metri di altezza. Da quel tragico giorno, la ricostruzione fisica del territorio e della rete sociale, sfibrata anche dal disastro nucleare, non è praticamente mai cessata. Uno dei fenomeni più visibili della trasformazione fisica di quei luoghi, sorta di cicatrice che rimanda simbolicamente al dolore delle migliaia di vite trasportate vie dal mare, è la costruzione di lunghe e alte mura protettive contro eventuali onde anomale future. Anche se alcune comunità hanno potuto spostare le loro abitazioni in zone più alte, lontane dal mare, lungo l’area di costa che si sviluppa nelle tre prefetture di Fukushima, Miyagi e Iwate, è stato deciso di costruire più di 400 chilometri di mura protettive.

Una piccola mostra organizzata nelle settimane scorse alla Epsite Gallery di Tokyo (visitabile online qui: https://my.matterport.com/show/?m=HLYi8er5cvE) tocca questo tema, ma in un modo affascinante ed obliquo. Intitolata Wall Endings, questo evento ha raccolto una serie di fotografie scattate dal britannico Gary McLeod, da anni residente nel paese asiatico ed impegnato da tempo in progetti di rephotography nella zona. La mostra in questione nasce come una sorta di lavoro laterale per l’artista e mette insieme una serie di scatti di zone secondarie, per così dire, di queste mura.

Come questi muri protettivi siano interpretati e perfino usati dai media è forse l’aspetto concettuale più affascinante del progetto. Come fa giustamente notare l’artista, spesso queste mura sono pensate e presentate, nell’immaginario mediatico, come una lunga striscia di cemento senza soluzione di continuità. Inoltre, il modo in cui vengono fotografate ed usate, con panorami «oscurati» dalle mura che occupano quasi la totalità dell’inquadratura, crea un senso di prigionia e di impossibilità per la vista di spaziare al di là di essi. In realtà, come dimostrano le fotografie del britannico, spesso le mura si interrompono e in molti casi sono dei terrapieni su cui è possibile salire e guardare il mare. Questo non significa che queste grandi costruzioni non limitino il modo in cui le persone, specialmente quelle del luogo, si relazionano al paesaggio che abitano ed inoltre resta il problema dell’effettiva funzionalità delle costruzioni.

La valutazione della validità o della bontà delle mura non è quindi il punto di interesse della mostra, e tanto meno la volontà del fotografo. Piuttosto sembra che McLeod sia più interessato a sbriciolare la monolitica semplificazione descrittiva che spesso consuma il discorso dei media, offrendo invece una visione, quasi decerteauiana, che parte dal particolare e dagli spazi interstiziali.
Quel che traspare dalla mostra è allora un tentativo di evidenziare come ci siano fratture e incrinature in questa simbolica muraglia, letteralmente questi muri spesso si interrompono, confluiscono in un paesaggio roccioso, o ancora permettono di essere scalati e percorsi. McLeod è interessato alle giunture, alle aperture e ai punti in cui il cemento si fonde con altro, nel diventare un collage con il paesaggio che attraversa. La stratificazione di questo paesaggio nel tempo, «naturale-artificiale», è un’altra caratteristica che emerge da queste fotografie, rocce millenarie, muri costruiti dieci anni fa, ma anche muraglie che già esistevano e che indicano come qualsiasi paesaggio sia già il prodotto di un processo storico-naturale che si evolve nel tempo.

matteo.boscarol@gmail.com

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