Le Moulin a Taiwan
Oriente estremo Surrealismo e dadaismo sotto il domino giapponese
Oriente estremo Surrealismo e dadaismo sotto il domino giapponese
Nel 17 aprile 1895 la Cina cede ufficialmente l’isola di Taiwan al Giappone con il Trattato di Shimonoseki e comincia così il periodo coloniale nipponico che durerà fino al 1945. Dopo più di trent’anni di assimilazione culturale forzata, verso il 1930 scaturì il primo movimento artistico di stampo moderno mai avvenuto a Taiwan, Le Moulin. Questo gruppo voleva scalciare giù dal piedistallo la supposta superiorità della cultura e delle arti giapponesi imposte sulla popolazione dell’isola, attraverso un rinnovamento che guardava soprattutto ad Occidente ed alla Francia dei Surrealisti in particolare. Anche se a portare ad introdurre queste correnti moderne provenienti dall’Europa furono paradossalmente proprio i giapponesi.
Le Moulin è anche il titolo di un film diretto, scritto e fotografato dal giovane regista taiwanese Huang Ya-Li, opera presentata in novembre al Copenhagen International Documentary Film Festival, un lavoro che mischiando documentario e cinema sperimentale ci presenta la storia, le vicende e gli impulsi artistici e politici che animarono questo movimento. Si tratta di uno dei lavori di più difficile fruizione ma allo stesso tempo più stimolanti fra quelli usciti dall’Asia etremo orientale in questo 2015, il film è esso stesso una sorta di collage cubistico di materiali. Foto dei membri di questo movimento ma anche degli artisti europei a cui si ipiravano, footage d’archivio del periodo, immagini di dipinti dei surrealisti e dei dadaisti, trasmissioni radio, e le parole di Dali, Ernst, De Chirico, Tzara, Breton, a volte recitate, a volte inserite come scrittura fra un’immagine ed un’altra o in sovrapposizione. Il tutto accompagnato da una narrazione che è lettura da diari, scambi epistolari, commenti e soprattutto moltissime poesie dei membri stessi de Le Moulin.
Interessante notare come pur nella loro volontà di distaccarsi e svincolarsi dalla mano paterna dell’impero coloniale giapponese, i testi erano redatti quasi sempre in giapponese ed il film stesso quindi è tutto narrato in lingua nipponica. Oltre alle immagini di repertorio il film è formato anche da brevi sequenze che rimettono in scena il periodo, un tavolino ed una sedia in uno studio o gli interni di una casa, dove non vediamo quasi mai le persone in volto, ma sempre le loro mani. Mani che scrivono per la maggior parte del tempo o che sfogliano libri di traduzioni di poeti francesi o di letteratura europea in generale. Una scelta formale, questa di non far vedere ma di lasciar intuire, che sussume perfettamente il tono e lo stile del film, ellittico, anti-narrativo, non-lineare dove il senso emerge dall’accumulazione e dalla sovraposizione dei materiali visivi e sonori presentati. Un’apnea da cui si esce alla fine delle quasi tre ore di durata del film che non è solo un’esperienza estetica ipnotica, ma che apre le porte su un contesto politico e letterario poco conosciuto in Occidente.
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