Con l’edizione iniziata ieri con il concerto di Bob Dylan, Umbria Jazz arriva a celebrare il mezzo secolo della propria fondazione e, un po’ in sordina, i novant’anni di Carlo Pagnotta, il quale dell’evento risulta l’inventore, assieme a un gruppo di amici: il commerciante perugino che, già diciottenne crea un hot club cittadino, pensa a un’ iniziativa gratuita per attrarre soprattutto il turismo, facendo leva, a livello di sponsor e organizzazione, sulla giunta Pci-Psi della neonata Regione Umbria (come le altre venti operative dal 1970, per volere costituzionale) e sull’esperienza di Alberto Alberti (1932-2006), discografico e impresario. Il debutto è, appunto, quasi in sordina: la sera del 23 agosto 1973 nel teatro naturale di Villalago a Piediluco, frazione di Terni, si esibiscono il sestetto Aktuala e, subito dopo, la Thad Jones & Mel Lewis Orchestra e non come indicato dalla locandina originaria anche un fantomatico Musicom e una giovanissima Dee Dee Bridgewater (facente invece parte della suddetta big band).
In questo primissimo appuntamento sembrano già delineate le linee guida non solo dei due giorni successivi, ma pure dell’intera manifestazione, così com’è andata consolidandosi fino a oggi: gli Aktuala (con Daniele Cavallanti, futuro Nexus, ai sassofoni) suonano un prog per così dire etnico, oggi definibile world music, in anticipo di circa vent’anni; l’orchestrona newyorkese del trombettista afroamericano e del batterista belga – piena zeppa di talenti post bop, Billy Harper, Pepper Adams, Roland Hanna, Jon Faddis, due mesi dopo in studio di registrazione con Manuel De Sica per l’omonimo album della Pausa Records – perpetua la tradizione delle orchestrone alla Duke Ellington o alla Stan Kenton, ma con deciso sapore moderno.

LA CARTA VINCENTE
La carta vincente di Umbria Jazz 73, dal punto di vista artistico, è appunto presentare dualisticamente il jazz sia nella versione classica o storicizzata – con un occhio di riguardo verso i nomi più importanti o popolari – sia attraverso le sonorità prossime alle nuove istanze generazionali. Tale duplice scelta risulta fin da subito praticabilissima, grazie a due obiettive realtà: da un lato il jazz acustico, dal mainstream all’hard bop, sta riprendendo quota da circa un anno negli Stati Uniti, come decretano gli applauditi ritorni in scena a New York di Frank Sinatra e Dexter Gordon; dall’altro l’abbuffata rock e soul da parte dei giovani alternativi riesce a influenzare nuovi generi jazzistici, in particolare il jazz rock e la creative music: il primo – detto in seguito fusion – è il tentativo di musicisti come Miles Davis di puntare su strumenti amplificati, ritmi binari, effetti elettronici, potenza timbrica, per avvicinarsi quanto più ai gusti delle ultime generazioni; la seconda non è altro che il proseguimento del free jazz in grado ora di accogliere simultaneamente l’orgoglio razziale nero, l’impegno politico europeo, le diverse riletture di svariati patrimoni musicali.
Un’altra duplice geniale trovata di Umbria Jazz 73 e delle successive quattro edizioni è offrirsi come manifestazione gratuita e itinerante: non vi sono biglietterie o transenne per i concerti, che ogni giorno vantano una differente splendida location, consentendo al pubblico di conoscere una regione ancora poco avvezza al turismo di massa (eccezion fatta per santuari e pellegrinaggi) avendo quale unico richiamo internazionale il Festival dei Due Mondi di Spoleto, inventato dal compositore italoamericano Gian Carlo Menotti, per una tipologia fruitiva radical chic. In quell’oramai leggendaria edizione Umbria Jazz 73 gli unici problemi riguardano le schermaglie (verbali e in fondo educate) all’interno tanto della critica (allora molto seguita sui diversi quotidiani) quanto del pubblico (ancora trasversale per età, ceti sociali, cultura, ideologie): ad esempio in piazza IV Novembre a Perugia l’esibizione – prima assoluta in Italia – a tutto volume del quintetto Weather Report con Wayne Shorter, Joe Zawinul, Miroslav Vitous, Eric Gravatt, Dom Um Romao fa storcere il naso a chi preferisce applaudire i vocalizzi canori di Dee Dee Bridgewater su celebri standard; oppure la performance molto teatrale della Intergalactic Solar Arkestra del tastierista Sun Ra irrita ovviamente chi ha del jazz un’idea legata a Benny Goodman o a Bill Evans, mentre incuriosisce parecchi giovani ignari di assistere a un meta-show di ciò che, mezzo secolo dopo, verrà chiamata cultura afrofuturista.
La fama nazionalpopolare di Umbria Jazz arriva però l’anno dopo, edizione 1974, quando migliaia di hippie si riversano nel centro perugino, a un centinaio chilometri, in linea d’aria, da Misano Adriatico, dove all’improvviso viene sospesa, o meglio vietata, una mega kermesse (definita la «Woodstock italiana») per disaccordi tra le giunte dei comuni limitrofi e per il timore delle autoriduzioni, visto che il festival prevede un biglietto abbastanza caro. I giovani già stanziati, delusi dall’annullamento, scoprono un luogo, dove la musica è gratis, anche se non sempre di loro gradimento. Le contestazioni verso alcuni jazzisti bianchi – Chet Baker, Stan Getz, Franco Ambrosetti colpevoli di incarnare il jazz disimpegnato – intensificatesi nelle edizioni 1975 e 1976, portano alla chiusura della manifestazione negli anni 1977, 1979, 1980, 1981.

NUOVA LINEA
Riaperti dunque i battenti solo nel 1982, Umbria Jazz cambia radicalmente assetto fino alla metamorfosi degli anni Duemila, dove gli eventi clou riguardano quasi solo le stelle pop e rock, come accadrà anche per luglio 2023, dove a commemorava il mezzo secolo viene chiamato addirittura Bob Dylan. L’annuncio del menestrello di Duluth in cartellone, nel gennaio scorso, suscita polemiche a non finire tra i jazzofili, benché in questo caso la presenza possa essere giustificata dai trascorsi artistici: Dylan inizia difatti suonando cover folk o blues, compone in seguito molti brani in stile bluesistico e di recente su disco (Shadows in the Night, Fallen Angels, Triplicate) e in tournée rilegge il grande songbook americano, impiegato dai jazzisti come standard per improvvisare. Il dito semmai dovrebbe essere puntato su scelte del recente passato assolutamente estranee al mondo del jazz e del sound afroamericano in genere, visto che ormai tutti i jazz festival raccolgono esponenti di blues, gospel, r&b, bossa nova, afrobeat.
Tuttavia a Umbria Jazz la presenza dei vari Thom Yorke, David Byrne, Kraftwerk, Mika, The Chainsmokers, Elton John, King Crimson, Rem, Massive Attack, Johnny Depp, Massimo Ranieri, Max Gazzè sembra del tutto gratuita, non nel senso del «gratis» nominato all’inizio, ma priva di qualsiasi aggancio con il jazz e persino con l’intera black music: ci vorrebbe poco, in fondo, a chiedere alle popstar invitate di inserire appositamente nei loro recital qualche evergreen del periodo hot, swing, bebop, come da anni fanno su disco Cindy Lauper, Nina Hagen, Rod Stewart, Robbie Williams (peraltro mai presenti a Umbria Jazz); del resto un paio di divi rock, Charlie Watts e Phil Collins, nel recente passato, si esibiscono a Perugia con autentiche big band, per non dire del magnifico esperimento del 1986 di Sting con la Gil Evans Orchestra: l’ex Police canta alcune sue hit con i nuovi arrangiamenti funk swingati, per lanciarsi nella immaginifica Little Wing di Jimi Hendrix (nella versione che il chitarrista avrebbe dovuto registrare nientemeno che con Miles Davis) e nella straziante Strange Fruit, ballad antirazzista dal repertorio dell’immensa Billie Holiday.
Quest’anno, oltre al già citato Bob Dylan, sono in programma, tra i tanti, Stefano Bollani «piano solo», Mauro Ottolini & l’Orchestra Ottovolante, Dado Moroni, Paolo Fresu, Herbie Hancock, Enrico Pieranunzi, Fabrizio Bosso Quartet, Gianluca Petrella Cosmic Renaissance, Brad Mehldau Trio, Branford Marsalis, David Mirelles, Rita Marcotulli, Snarky Puppy, Danilo Rea, Pérez-Patitucci-Cruz Trio, Ben Harper & The Innocent Criminals, Enrico Rava-Fred Hersch, Stewart Copeland, Marc Ribot, Paolo Conte, Kenny Barron Trio, Joe Bonamassa, Samara Joy.