Inizia domani il Festival di Santarcangelo, per dieci giorni nella cittadina romagnola ci sarà modo di approcciarsi al noto e all’ignoto per intercettare le epifanie e le sfide che il contemporaneo può offrirci nelle sue varie forme. Tra gli artisti internazionali presenti, la regista e drammaturga cilena Manuela Infante sembra incarnare perfettamente lo spirito della manifestazione: la sua rilettura delle Metamorfosi di Ovidio ragionerà sulla mutazione e sul confine tra umano e non-umano. «Credo che molti autori del passato pensassero già nei termini del post-umanesimo, anche se non veniva ancora chiamato in questo modo» racconta, facendo riferimento alla corrente di studio che mette l’accento sull’ibridazione e sulla capacità di agire di ogni essere, per scalzare la cultura antropocentrica. Presente già alla Biennale Teatro due anni fa con lo spettacolo Estado Vegetal, Infante dirigerà gli attori Hannah Berrada, Luna De Boos e Jurgen Delnae il 17 e 18 luglio.

Come ha scoperto il post-umanesimo e capito di poter esprimere questa visione tramite il teatro?

Il primo autore che ho conosciuto di questo filone credo sia stato Bruno Latour, che non è un propriamente un esponente del post-umanesimo per come poi si è affermato, ma è stata la mia chiave per entrare in quel pensiero. Mi ricordo di quando lessi la sua actor-network theory e il concetto di «attante», che consiste sostanzialmente in un attore che può essere umano o non umano. Ciò risuonava fortemente con l’azione a teatro, era come se ci fossero già tutti gli elementi che avevano solamente bisogno di essere applicati. Poi ho iniziato ad approfondire la corrente del realismo speculativo con Jane Bennett, Donna Haraway e anche tanti autori del passato.

Manuela Infante, foto di Danny Willems

Qual è stato il suo approccio ad un testo classico come le Metamorfosi?

Michael De Cock, il direttore artistico del KVS di Brussels [che produce lo spettacolo], aveva già lavorato sulle Metamorfosi e mi ha dato lui lo stimolo per farne una mia versione. Quando ho riletto il testo sono rimasta sorpresa di come veniva descritto il confine tra umano e non umano ma anche di come fosse presente la violenza sulle donne, un elemento che circonda sempre il fenomeno della metamorfosi. Ad un primo livello il libro potrebbe essere letto come un’ode al mutaforma (shapeshifting), ma è impossibile non vedere come nelle storie raccontate ogni volta una donna stia tentando di fuggire da uno stupro mentre viene esiliata nella forma di un albero, un fiume e così via. Un possibile approccio sarebbe allora quello di liquidare il libro come misogino. Io invece sono rimasta molto affascinata da come Ovidio si concentra sul tema della voce: mentre le figure femminili vengono trasformate, tentano di parlare ma si sente solo uno strano suono uscire dalle loro bocche. Vengono esautorate dall’umano in quanto perdono il linguaggio, che dovrebbe essere una nostra specificità. Io ho lavorato sull’idea di voce come di qualcosa che non ci appartiene ma come di un’entità che circola, riverbera e risuona nello spazio e negli oggetti. Quest’enfasi che Ovidio stesso ha messo sull’espressione vocale è stata allora uno strumento per confondere i confini disegnati dai miti stessi. Con il sound designer Diego Noguera abbiamo lavorato su come trovare in questi suoni un nuovo tipo di linguaggio per chi sia stato espulso dall’umanità. Non credo infatti che il punto sia ridare alle donne quella stessa voce che è stata loro tolta, credo sia più interessante cercare una lingua nuova e resistente.

Qual è la condizione attuale della scena teatrale in Cile?

Prima della pandemia ci sono state delle grandi rivolte in Cile, le persone sono scese in piazza anche in maniera violenta per protestare contro gli ultimi quarant’anni di economia neoliberale. È difficile allora parlare della scena teatrale senza considerare che i teatri sono stati chiusi per molto tempo e che ci si concentrava innanzitutto su ciò che accadeva per le strade. Poi con la pandemia le chiusure si sono protratte e attualmente è un momento piuttosto tragico, perché non c’è stato alcun tipo di supporto e molti artisti stanno facendo altri mestieri per sopravvivere. Tuttavia se torniamo al periodo delle rivolte sociali ovvero il 2019 e prima ancora, nella scena cilena sono accadute molte cose interessanti. Attualmente mi trovo in Europa e vedo una certa rigidità data dal carattere istituzionale del fare teatro, anche se chiaramente è ottimo dal punto di vista dei finanziamenti e della remunerazione per chiunque lavori nel settore. In Cile tutto questo non c’è e l’approccio è sicuramente più sperimentale, non solo nei contenuti ma anche nelle forme. È un risultato della precarietà sicuramente, ma anche un modo stimolante per vedere come il teatro si relaziona ad una realtà sociale in fermento.