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Le metamorfosi del ballo perfetto

Le metamorfosi del ballo perfettoGrace Jones durante la serata Confinement all'Area di New York nel 1984 (foto Volker Hinz dal catalogo della mostra Vitra Design Museum)

Mostre/Il Museo Pecci di Prato ospita «Night Fever», una storia del mondo dei club e delle discoteche dagli anni Sessanta a oggi Musiche, luci, plastici, foto, moda, arredi, ricostruzioni di interni, design. Fino al 6 ottobre va in scena un viaggio approfondito nei luoghi della notte. Tra spazi e ambienti che stanno cambiando, anche radicalmente. All’estero e nel nostro paese

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 6 luglio 2019

«Non è la grande materia prima dell’arte moderna, della nostra arte quotidiana – non è, in questa epoca, la luce? Nei teatri, la luce è remota, fissata al palcoscenico. A Le Palace, è l’intero teatro che diventa palcoscenico; qui la luce occupa uno spazio profondo, all’interno del quale prende vita e si comporta come un attore», scriveva in un articolo dedicato alla celebre discoteca parigina, Roland Barthes in un articolo di Vogue, nel 1978.
Luce, design, moda, musica, spazio, corpi che ballano, e politica. La club culture è riuscita a tenere assieme tutti questi aspetti e la luce (e il lighting design) è fondamentale nella mostra Night Fever. Designing Club Culture 1960-Today, proposta al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, a Prato (www.centropecci.it), prodotta dal Vitra Design Museum e Adam-Brussels Design Museum e aperta al pubblico fino al prossimo 6 ottobre.
INTRECCI E RIMANDI
L’esposizione, piena di intrecci e rimandi, racconta 40 anni di club culture e lo fa con una vera e propria installazione continua che immerge lo spettatore in un percorso multisensoriale. È una mostra che avvolge e guida lo spettatore nei luoghi di culto della club culture. Nella sua parte centrale ha anche una sala disco dove si può decidere che tipo di musica ascoltare: disco, house, techno.
È un alternarsi di film, arredamenti delle più celebri discoteche, foto, memorabilia, disegni tecnici, plastici, abiti (come quelli fantastici di Leigh Bowery e Roy Halston). Il tutto con un impatto visivo molto forte e la creazione di apposite ambientazioni e illuminazioni. Ma possiamo trovare anche il racconto molto puntuale dell’architettura e del design legati a questi spazi, il tutto partendo dal presupposto che le discoteche sono state un cuore pulsante della cultura contemporanea, che hanno messo in discussione i codici prestabiliti del divertimento e hanno permesso di sperimentare stili di vita alternativi attraverso manifestazioni innovative del design, della grafica, della moda, della musica.
Le discoteche sono state delle eterotopie, giustamente segnalano i curatori della mostra. Michel Foucault forgiò questo termine sul modello del concetto di utopia, e come il suo simmetrico inverso: eterotopia designa luoghi aperti su altri luoghi, luoghi la cui funzione è di far comunicare… Laddove però le utopie designano ambienti privi di localizzazione effettiva, le eterotopie sono luoghi reali.
La mostra esamina la storia del clubbing con esempi che vanno dai locali notturni italiani degli anni Sessanta creati dai membri del gruppo dei Radicali al leggendario Studio 54 di Ian Schrager a New York (1977-80); da Les Bains Douches di Philippe Starck a Parigi (1978) al più recente Double Club di Londra (2008), ideato dall’artista tedesco Carsten Höller per la Fondazione Prada.
È noto che gli anni ’60 e ’70 furono un periodo di fertile sperimentazione utopistica, con la ricerca più sfrenata nell’ambito dei materiali, nel concepire in maniera quasi profetica un’attenzione per l’ambiente e l’ecologia. Per esempio lo Studio 9999 concepì all’interno dello Space Electronic di Firenze uno spazio per il verde, una sorta di orto nel centro della discoteca, per mettere in comunicazione artificialità estrema e natura. I club sono stati luoghi fondamentali per l’elaborazione e la crescita delle subculture; oltre agli eventi musicali di cui hanno costituito i laboratori delle nuove tendenze, sono stati la cornice ideale per lo sviluppo delle arti performative e il design, chiamato a rispondere alle necessità di flessibilità dello spazio.
UNA CONTINUITÀ
Lo spazio definito dai club è partecipativo e democratico e così è spesso stato anche per il design che lo ha strutturato. Una continuità forte che emerge dalla mostra è quella tra i movimenti di emancipazione e rivendicazione sociale e la scena dei club. Per esempio, la costruzione del processo di autocoscienza e di identità dei movimenti per i diritti dei gay e delle lesbiche non sarebbe stato lo stesso senza la fondamentale funzione dei club, nella New York degli anni ’70: la cultura disco, soprattutto quella newyorkese, si caratterizza per una spinta fortemente «contro».
In questi locali per la prima volta i latinos e la comunità Lgbt trovano uno spazio dove affermare la propria identità. Luoghi come il Paradise Garage (lì Keith Haring dipinse il corpo di Grace Jones) nascono con questa forte connotazione, anche se poi diventano fenomeni mainstream. Non a caso Larry Levan, mitico dj del Paradise, era fortemente impegnato nelle lotte per i diritti civili. Anche nel nostro paese i club hanno avuto un ruolo cruciale.
«Sin dall’inizio della nostra ricerca – sostiene Jochin Eisenbrand, capo-curatore della mostra – la scena italiana dei club storici ci è sembrata un riferimento fondamentale, soprattutto per l’imprescindibile ruolo che architetti e designer hanno avuto nella definizione degli spazi dei club degli anni ’60 e ’70. E riviste come Domus e Casabella hanno saputo ospitare il dibattito intorno agli aspetti teorici connessi con quelle visioni d’avanguardia».
A Firenze c’erano il Mac2 e lo Space Electronic, una delle discoteche nate dalla collaborazione con i protagonisti dell’Architettura Radicale italiana, che hanno rappresentato degli esempi straordinari di realizzazione degli slanci utopici di quegli anni. A tal proposito la mostra del Pecci propone un importante approfondimento e un ampliamento sull’originalità italiana, di Firenze in particolare.
Interessante è la documentazione del corso tenuto da Leonardo Savioli nel ’66-’67, a cui parteciparono Alberto Breschi di Zziggurat e alcuni esponenti di 9999 e di Ufo. E di gran rilievo è anche il progetto di Mac2 del Superstudio e quello – non realizzato – del Piper di Breschi.
MOBILI MODULARI
Tra le discoteche con design innovativi una menzione particolare va al Piper (1966) di Torino, lo spazio multifunzionale concepito da Giorgio Ceretti, Pietro Derossi e Riccardo Rosso, che con i suoi mobili modulari non solo faceva ballare, ma si prestava ottimamente anche per concerti, happening e teatro sperimentale; da ricordare anche il night club Il Grifoncino di Bolzano, disegnato da Cesare Casati e Emanuele Ponzio o il Bamba Issa (1969), una discoteca toscana sulla spiaggia di Forte dei Marmi ideata dal Gruppo UFO; quest’ultima rimandava a un teatro dell’arte, dove tutto l’interior fungeva da palcoscenico e, nei tre anni di esistenza, ogni estate venne trasformata a tema.
Se è vero che presero ispirazione da club newyorkesi come l’Electric Circus (1967), progettato dall’architetto Charles Forberg e dal carattere multidisciplinare del famoso studio Chermayeff & Geismar, è anche vero che seppero sviluppare un propria specificità.
Se poi pensiamo alla New York di Andy Warhol, Jean-Michel Basquiat, Robert Mappelthorpe, Keith Haring, risulta evidente che il legame tra arti visive e mondo della notte è sempre stato molto forte, un rapporto molto fluido e naturale. Non a caso le contaminazioni tra design, moda, arti visive, musica, sono state ricchissime, e hanno prodotto cose meravigliose; nascevano dalla medesima fucina e dalla frequentazione collettiva di questi spazi.
NUOVE OPPORTUNITÀ
Contemporaneamente, discoteche come il Mudd Club (1978) o l’Area (1978) di New York, fondendo vita notturna e arte, offrivano nuove opportunità ai giovani artisti emergenti: fu in questo scenario che ebbero inizio le carriere di Haring e Basquiat. Intanto, nei club londinesi come Blitz e Taboo, con i New Romantic nacquero un nuovo stile di musica e una nuova moda. Tra i clienti più affezionati vi erano i gestori del Kinky Gerlinky, Michael e Gerlinde Costiff, e la stilista Vivienne Westwood. A Manchester l’architetto e designer Ben Kelly progettò una cattedrale del rave postindustriale, l’Haçienda (1982), cofinanziato, tra l’altro, dalla band britannica New Order. Da qui l’acid house, un sottogenere della musica house, partì alla conquista della Gran Bretagna. House e techno, nate nei club di Chicago e Detroit, possono essere indicati come gli ultimi due grandi movimenti della dance music, che hanno caratterizzato un’intera generazione di club e raver.
Impossibile non citare anche la scena berlinese dei primi anni Novanta, dove discoteche come Tresor (1991) diedero nuova vita a spazi abbandonati e deteriorati, scoperti dopo la caduta del muro. Anche il Berghain, aperto nel 2004 in una vecchia centrale termoelettrica, dimostra che una scena disco vivace si sviluppa soprattutto dove ci sono gli spazi urbani necessari. Dagli anni 2000, lo sviluppo della club culture si è fatto più complesso: da un lato è in forte ripresa e in continua espansione, anche con il coinvolgimento di marchi e festival di musica globali, dall’altro, molti club sono spinti fuori dai contesti urbani o sopravvivono come tristi monumenti di un passato edonistico. A oggi uno dei locali più celebri è il Double Club di Londra, ideato dall’artista tedesco Carsten Höller per la Fondazione Prada. Nel frattempo è cresciuta una nuova generazione di architetti che si confronta nuovamente con la tipologia del locale notturno: tra questi vi è lo studio olandese Oma, sotto l’egida di Rem Koolhaas, che ha proposto un nuovo concept per una delle discoteche più famose del mondo, il Ministry of Sound II di Londra, quintessenza del club del Ventunesimo secolo. Un altro esempio è lo studio di architettura e design Akoaki, che con il suo Mothership, una consolle da dj mobile, concentra l’attenzione sulla ricca storia del clubbing della sua Detroit.
La storia dei night club e delle discoteche è ovviamente strettamente collegata alla musica. I visitatori della mostra possono fruire dell’installazione interattiva ideata da Kostantin Grcic (design) e Matthias Singer (lighting design) immergendosi nei suoni di quattro epoche differenti, da qui quattro playlist diverse – pre-disco, disco, house e techno – preparate da Steffen Irlinger.
Una sezione di copertine di album significativi, che in alcuni casi hanno addirittura definito uno stile, dà poi un’idea dell’estetica che veniva associata a questi generi musicali. La musica suonata nei club negli anni ’60 era assai varia: dal rock al funk, passando per il soul, l’afro, il latino, fino ad arrivare al jazz. Con l’avvento delle discoteche negli anni ’70, la musica dance è diventato un genere a sé. I dj, che erano stati fino a quel momento dei semplici «fornitori» di un servizio, diventano ora artisti a pieno titolo. Il mix divenne più significativo delle canzoni singole, e il costante beat in 4/4 tipico della disco – the four-to-the-floor (la cassa in 4/4”) – rese il mixare più facile. Con l’ascesa della musica dance elettronica – in particolare della House (a Chicago) e della techno (a Detroit) – le battute al minuto (bpm) divennero la misura delle cose. Negli anni ’80 i dj producevano sempre più spesso la propria musica. E per decenni i club sono stati i luoghi deputati a introdurre e campionare nuova musica.
SUCCEDE OGGI
Se fino agli anni ’90 questo intreccio di musica, arti visive, performance, design era ancora rintracciabile nelle discoteche – per rimanere in Italia pensiamo al Cocorico di Riccione, che ospitava le performance del nascente teatro della nuova avanguardia italiana con le indimenticabili azioni della neonata Socìetas Raffaello Sanzio, e le lezioni, prima delle luci dell’alba di Manlio Sgalambro nel piccolo privè Morphine, dove spesso il dj, invece della techno, selezionava musica classica – bisogna dire che oggi per i club è diventato molto più difficile essere luoghi speciali con un ruolo d’avanguardia: se prima si doveva andare in un club per ascoltare le nuove tendenze, ora con la rivoluzione digitale si può avere con sé la musica in ogni momento, e quello che succede nei club viene subito documentato con gli smartphone e rimbalzato fuori con i social. Un’altra ragione dell’attuale crisi dei club risiede nell’esplosione del fenomeno dei festival nei quali nell’arco di una giornata si possono vedere e sentire decine di dj. Assistiamo quindi a un processo di smaterializzazione della notte – fenomeno a cui è dedicata l’ultima parte della mostra – in cui il club non è più il luogo fisico ma diventa nomade con l’affermarsi dei festival e dei rave, che forse hanno il merito di allargare numericamente la partecipazione. Ma il ragionamento sulla modificazione contemporanea dei luoghi e dei momenti di ritrovo porterebbe troppo lontano, attraversando altri intrecci culturali, passando dai centri sociali ai rave. E non è questa la sede.
FUORI I NOMI 
Tra gli artisti, designer e architetti rappresentati figurano: François Dallegret, Gruppo 9999, Halston, Keith Haring, Arata Isozaki, Grace Jones, Ben Kelly, Peter Saville, Studio65, Roger Tallon, Andy Warhol ecc.
Tra i club rappresentati (selezione): The Electric Circus, New York 1967; Space Electronic, Firenze 1969; Il Grifoncino, Bolzano 1969; Studio 54, New York 1977; Paradise Garage, New York 1977; Le Palace, Parigi 1978; The Haçienda, Manchester, 1982; Area, New York 1983; Tresor, Berlino 1991; B018, Beirut 1998; Berghain, Berlino, 2004 ecc.
Tra le musiche selezionate. Playlist pre-disco: The Stylistics, People Make the World Go Round; Fania All Stars, Viva Tirado; Ramsey Lewis, Sun Goddes; Donald Byrd, Lansanas’s Priestress; Cymande, Brothers on the Slide; Manu Dibango, Soul Makossa; Barrabas, Wild Safari; The Jimmy Castor Bunch, E-Man Boogie; Creative Source, Who Is He and what Is He to You; Gil Scott-Heron & Brian Jackson, The Bottle; B.T. Express, Do It (‘Til You’re Satisfied); MFSB, Love Is the Message; Barry White, You’re the First the Last, My Everything.
Playlist disco: The Salsoul Orchestra, Sun after the Rain; Carl Bean, I Was Born this Way; Chic, I Want Your Love; Goody Goody, It Looks like Love; Universal Robot Band, Footsteps on the Roof; Four Below Zero, Esp; Double Exposure, Ten Percent; Jackie Moore, This Time Baby; Jimmy “Bo” Horne, Spank; Donna Summer, I Feel Love; The Creatures, Believe in Yourself; Sylvester, Over & Over.
Playlist house: Aphrodisiac, Son of the Siren; Mr. Fingers, Can You Feel It; Logic, The Final Frontier; Frankie Knuckles, Tears; Joe Smooth, Promised Land; Housemaster Boyz, House Nation; Marshall Jefferson, The House Music Anthem (Move Your Body); Inner City, Big Fun; Fast Eddie, Acid Thunder; Phuture, Acid tracks; NY House’n Authority, Apt 2A; Moodymann, I Can’t Kick this Feeling when It Hits; Theo Parrish, Paradise architects; Nuyorican Soul; The Nervous Track.
Playlist techno: Kraftwerk, Trans Europa Express; Cybotron, Alleys of Your Mind; A Number Of Names, Sharevari; Rhythim Is Rhythim, Strings of life; LFO, LFO; Basic Channel, Q 1.1; Theo Parrish, Falling up; Laurent Garnier, Crispy Bacon; Jeff Mills, Automatic; Robert Hood, The Rhythm of Vision; Ron Trent, Altered States; Los Hermanos, Quetzal.

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