Le macerie nel passaggio di consegne tra l’Avvocato e il Banchiere
L'analisi politica Ha vinto il blocco di potere di un capitalismo parassitario e speculativo, aggregato intorno alla ”impresa irresponsabile”, sul modello delle autostrade dei Benetton
L'analisi politica Ha vinto il blocco di potere di un capitalismo parassitario e speculativo, aggregato intorno alla ”impresa irresponsabile”, sul modello delle autostrade dei Benetton
Le dimissioni di Nicola Zingaretti sono l’ultimo passaggio – drammatico – della reazione a catena innescata da Matteo Renzi quando ha dinamitato il governo Conte II. E insieme il segno dello sfacelo di un assetto istituzionale che nasconde le proprie macerie dietro il sorriso enigmatico – e vagamente minaccioso – di Mario Draghi.
Quel passaggio di consegne tra l’Avvocato (del popolo) e il Banchiere (dei potenti) non ha segnato solo un chiarissimo spostamento a destra dell’asse politico. Ha rilasciato anche uno sciame sismico che mina alla base il già precarissimo equilibrio del sistema politico, incrementando la tendenziale liquefazione di tutte lo forze che lo compongono. E può aprire la via ad avventure imprevedibili oggi (si pensi a quel 50% circa di elettori che nei sondaggi figurano come “incerti”, cioè privi di rappresentanza politica).
È stata, quella crisi di governo assurda e insieme logicissima, la vittoria del blocco di potere che costituisce il baricentro di un capitalismo fattosi in quasi un trentennio di declino arrogante e straccione. Un ceto parassitario e speculativo, aggregato com’è intorno a quella che Luciano Gallino aveva chiamato l’”impresa irresponsabile”, immaginata per intenderci sul modello delle autostrade dei Benetton.
Ci stanno dentro gli avvelenatori dell’Ilva, i pessimi manutentori del ponte Morandi, i tradizionali vincitori degli appalti di tutte le “grandi opere” devastatrici del paesaggio, gli immobiliaristi romani e i robber baron del capitalismo delle reti oltre che, sotto, molto sotto, il reticolo pulviscolare dell’economia molecolare padana, galleggiante solo grazie ai bassi salari e all’assenza di resistenza sindacale.
Sono loro i vincitori del 13 febbraio. Loro che avevano incominciato a picconare Giuseppe Conte prima ancora che entrasse a Palazzo Chigi, contestandone (ricordate?) il curriculum, preoccupati che il suo sguardo si posasse un pochino – poco poco, appunto – su quanto sta in basso. Loro che hanno sostenuto l’offensiva di Salvini per svuotare la pur debole spinta anti-establishment dei 5Stelle nella compagine giallo verde (epico il ribaltamento sul Tav Torino-Lione), e poi a lavorare per scavare la terra sotto i piedi a quella giallo-rossa chiedendo, fin dall’inizio della pandemia, di mettere l’economia al di sopra della salute. Sempre loro a usare il capitano di ventura Matteo Renzi nella mattanza finale… Facciamocene una ragione: l’Italia è questa cosa qui, nelle mani di questa gente qui.
In questo senso il gesto di Zingaretti ha un carattere esemplare: come ha scritto ieri Norma Rangeri, costituisce “la più cruda, eloquente rappresentazione” di cos’è oggi il Pd, ma anche di cos’è diventato il Paese. E’ un atto di onestà. O, meglio, di verità. Dà la dignità delle parole a ciò che ognuno di noi vede e ha visto ogni giorno. Pesa come un macigno il termine VERGOGNA, ed è difficile trovare espressione più calzante per i comportamenti di quel gruppo dirigente. E non solo di quello.
Esattamente due anni fa, il 17 marzo del 2019, Zingaretti aveva preso in mano un “partito morto” (così l’ha definito Cecilia D’Elia), svuotato da più di quattro anni di segreteria renziana: e in effetti come sarebbe stato possibile sopravvivere, con un corpo e con un’anima, per un partito che per quasi 1550 giorni si era dato anima e corpo a un simile avventuriero della politica? Tanto più che quel partito senz’anima, o con un’anima fragilissima, era nato, quando con sciagurato azzardo, nel 2008, Walter Veltroni aveva avviato la fusione fredda con la Margherita immaginando di farne il perno di un bipartitismo italiano spirato in culla.
A quel compito da rianimatore di terapia intensiva l’ultimo suo segretario si era applicato con buona volontà, anche se senza brillantissime idee, fino a dover scoprire, alla fine, l’inutilità di quell’accanimento terapeutico di fronte alla coriacea incapacità del partito di rapportarsi alla sofferenza diffusa, lacerante, di buona parte della popolazione o anche solo di includerla nel proprio orizzonte di pensiero.
Per una sorta di astuzia della ragione, che dissemina indizi anche se quasi mai vengono colti da chi dovrebbe, nello stesso giorno degli agguati a Zingaretti l’Istat ha rilasciato gli ultimi dati, terribili, sulla povertà assoluta. Versano in questa condizione, cioè non possono fruire del minimo indispensabile per “una vita dignitosa”, più di 5 milioni e mezzo di persone, quasi un cittadino su dieci. Un milione in più rispetto all’anno scorso, per la metà “operai o assimilati”, cioè titolari di un posto di lavoro che non gli permette comunque di vivere. E non sono stati ancora sbloccati i licenziamenti.
Chi rappresenterà questo bacino di sofferenza sociale nel tempo durissimo che ci aspetta? Chi li sottrarrà al fascino del demagogo di turno che li ammalia e tradisce? O alla dura legge della protezione in cambio di fedeltà, che è la tomba di ogni democrazia.
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