Cultura

Le macchine degli antichi

Le macchine degli antichiUn particolare del Mausoleo degli Haterii, secondo secolo D.C. (Musei Vaticani)

TEMPI PRESENTI Intervista a Giovanni di Pasquale, ricercatore al Museo Galileo di Firenze e associato alla Texas A&M University. Lo storico della scienza sarà ospite a Taormina per «Taobuk» quest’anno dedicato al tema della verità. «C’è un patrimonio tecnologico lasciatoci dalle civiltà che ci hanno preceduto. Come la "gru calcatoria" in funzione fino all’800»

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 5 giugno 2022

Giovanni di Pasquale è uno degli ospiti di Taobuk, il festival letterario di Taormina in programma dal 16 al 20 giugno. Storico della scienza, ricercatore al Museo Galileo di Firenze e associato alla Texas A&M University, Di Pasquale a Taormina racconterà «Storia di automi» tra mito, leggende e realtà. La storia delle macchine è al centro delle sue ricerche, che ha condensato in un libro pubblicato nel 2019 per i tipi di Carocci intitolato Le macchine nel mondo antico. Dalle civiltà mesopotamiche a Roma imperiale. Secondo la vulgata, l’antichità era priva di macchine e le grande conquiste nel campo dell’architettura e dell’ingegneria si spiegherebbero solo con lo sfruttamento di un esercito di schiavi a disposizione di faraoni, re e imperatori. Ma la storiografia più recente sta mettendo in discussione questa concezione.

Gli antichi disponevano e usavano le macchine?
È un tema su cui ultimamente si è riaperto il dibattito, grazie ai progressi dell’archeologia e alla revisione di ipotesi storiografiche superate. Secondo la concezione tradizionale dell’antichità, gli schiavi fornivano l’energia per ogni opera. Ma non bastano gli schiavi, per quanto numerosi, a sollevare per esempio i blocchi enormi usati nell’edilizia. L’antichità ha ideato e adoperato un ampio repertorio di macchine. Come la «gru calcatoria» inventata dagli antichi è rimasta in funzione fino all’800. C’erano poi macchine idrauliche per sollevare l’acqua, sistemi idraulici moderni usati in terme, fontane, case e giardini. Le macchine erano usate anche nel teatro. Un patrimonio tecnologico che dobbiamo riconoscere a queste civiltà, di cui ricordiamo soprattutto l’arte e la filosofia.

È un’immagine molto diversa di quella ricevuta dalla tradizione.
Facciamo un esempio: i 29 blocchi giganteschi usati a Roma per la colonna Traiana, con i bassorilievi e i 185 gradini scavati al loro interno, arrivarono dalle alpi Apuane superando 700 metri di dislivello con la slitta fino al porto di Luni, dove vennero imbarcati con problemi di galleggiamento ancor oggi difficili da superare e poi scaricati all’Emporium e trasportati al centro di Roma. Dallo scavo a un monumento di una complessità inaudita sono trascorsi appena cinque anni. Quando nel 1928 gli industriali di Carrara regalano a Mussolini l’obelisco che oggi è al Foro Italiano, ci vogliono quattro anni per farlo arrivare a Roma.

Perché si è diffusa l’idea che gli antichi avessero geniali scienziati ma non macchine avanzate?
La concezione di un mondo privo di macchine ha messo d’accordo antichisti, antropologi, storici della scienza, della filosofia e dell’economia. E questo ha dato vita a una singolare «storia alla rovescia»: si sono scritti articoli e libri sul perché gli antichi non abbiano conosciuto le macchine. Fino agli anni ’60 del novecento la storiografia fa riferimento a un’epoca incapace di unire teoria e tecnica, che per proteggere l’ordine sociale preferiva usare gli schiavi. È stata una storiografia tenacissima.

In quali civiltà antiche la tecnologia fece i maggiori progressi?
L’epoca d’oro è il terzo secolo a.C., quando Alessandria d’Egitto diventa il principale centro della cultura nel Mediterraneo. Nella città dei Tolomei vengono create istituzioni come la biblioteca e il museo, progettate per diffondere il sapere. In quell’epoca la scienza si separa dalla filosofia e nascono le discipline autonome che sopravvivono fino a oggi: la meccanica, l’ottica, la scienza degli automi, la pneumatica, l’ingegneria delle macchine da guerra. Ma non è un punto di partenza: è un momento di sintesi di tutte le esperienze fatte fin lì nel Mediterraneo. Però lì inizia una storia basata sui testi scritti: per la prima volta, tecnici di cultura superiore accettano la sfida e scrivono trattati sulle loro conoscenze.

Nelle commedie di Plauto ci si lamentava dell’invenzione della meridiana, che «ha fatto a pezzi la giornata» stabilendo un’ora fissa per i pasti. Anche la critica del progresso è iniziato così presto?
Già nell’antichità si levano voci contro il progresso della tecnica e della tecnologia. Il tecnico è visto con sospetto perché risolve i problemi pratici con un sapere che raramente condivide mettendolo per iscritto. Basta pensare a Ulisse: il tecnico può usare le conoscenze che ha a fin di bene o per il male. Nessuna società ha riflettuto sulla tecnica quanto quella greca e anche nel mondo romano nascono voci critiche. All’epoca di Plinio, la passione per i marmi faceva sì che il mediterraneo fosse attraversato da flotte di navi che li trasportavanodi. E Plinio denunciava il fatto che si livellassero le montagne e si modificasse la natura solo per soddisfare la passione per il lusso. Da subito, dunque, autorevoli pensatori criticano non la tecnica, ma il modo in cui viene adoperata. È un tema attualissimo.

Quando si è iniziato a parlare dell’etica delle macchine, come facciamo oggi con l’intelligenza artificiale?
È un problema che nasce con la rivoluzione industriale, quando la macchina libera l’uomo da condizioni lavorative gravosissime. Ma l’uomo liberato da queste condizioni si rende conto di essere a sua volta un ingranaggio. Questa critica parte con la rivoluzione industriale e non ci lascia più. Per Heidegger, non è l’uomo ad abitare la Terra ma la Tecnica, di cui noi siamo solo strumento. D’altronde, oggi siamo giudicati bene o male solo in base a come eseguiamo i compiti a noi assegnati. La razionalità della tecnica vuole efficienza e produttività. Ma l’uomo è altro: pensa, sogna, piange. Oggi il tema è come mediare tra un mondo che dalla rivoluzione industriale deve fare i conti con la tecnica, e la consapevolezza che siamo comunque esseri umani.

Mercato globale, istituzioni complesse, tecnologia avanzata: tutti gli ingredienti della modernità erano già presenti nell’impero romano. Il punto debole dell’impero, dicono alcuni storici, era la dipendenza dalla schiavitù.
Abbiamo scoperto con grande sorpresa che in una delle cave in Egitto in cui si ricavava il pesantissimo basalto che arrivava a Roma, persino in quel caldo insopportabile, non lavoravano schiavi ma lavoratori specializzati. Dunque, anche laddove daremmo per scontato che la schiavitù sia stata essenziale, dobbiamo spesso sostituirla con il lavoro specializzato. L’impero romano andava dall’odierno Portogallo all’Arabia, si reggeva su funzionari efficienti a livello locale che mandavano avanti l’amministrazione dei territori. E usare l’architettura come linguaggio unificante, costruendo in tutto l’impero anfiteatri, acquedotti, strade, basiliche al fine di rendere anche i vinti partecipi di un’idea, richiedeva architetti e macchine in uno spazio vastissimo.

Perché, partendo da un mondo già così evoluto, per approdare alla modernità è stato necessario attraversare il Medioevo?
Tanti si fanno questa domanda. La dipendenza dalla schiavitù è solo una spiegazione parziale. Tutto è stato bloccato dalla caduta di Roma. Ne erano consapevoli i romani stessi, che percepiscono la fine di un’epoca e si mettono a scrivere trattati di meccanica. Ma io sospetto che in un prossimo futuro anche la nostra concezione del Medioevo andrà rivista, come avviene oggi per l’antichità, perché i popoli che arrivarono in Europa nel Medioevo, e che chiamammo «barbari», in realtà portarono anche nuove conoscenze.

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