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Le macchin’azioni di Tinguely

Le macchin’azioni di Tinguely

La mostra Allo Stedelijk Museum di Amsterdam gli ingranaggi "esibizionisti" dell'artista svizzero

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 4 marzo 2017

Sono gli ultimi giorni utili per poter visitare la retrospettiva del lavoro di Jean Tinguely che lo Stedelijk Museum di Amsterdam ha grandiosamente allestito con titolo quanto mai azzeccato: Machine Spectacle (in corso fino al 5 marzo). Per la prima volta, sono riunite tutte insieme oltre cento opere di piccole, medie e anche di enormi dimensioni, alcune delle quali rimaste ferme per decenni: una curatela decisamente impegnativa soprattutto in termini di «revisione meccanica».
Padelle, padelloni, putrelle, bracci meccanici, forconi, tubi, tenaglie, cinghie di trasmissione, gigantesche spirali, pale, rotelle, imbuti, bottiglie, martelli e martelletti, incredibile l’infinità di ferraglie recuperate o forgiate ex novo, e poi assemblate e programmate per vivere in un continuum di sussultante movimento: una gioiosa «macchin’azione», che Jean Tinguely scelse come unica possibile risposta alla finitezza del fare-arte in generale, e come affermazione di creatività integrale: un corpo-a-corpo con l’opera di cui essere innanzitutto operaio-padrone, un modo per dire «no» al dominio del lavoro sulla vita.
INUTILE È BELLO
«C’è un momento in cui anche l’opera più di rottura, prendiamo un quadro, o scultura, dev’essere finita – diceva spesso -. E io amo ciò che continua, detesto la staticità delle cose finite, mi piace se quello che faccio sommuove, commuove, genera stupore…». Ed eccolo artista-operaio alle prese con macchine di sua originalissima invenzione e sempre più strambe: «caratteriali» come le definì Pierre Restany o semplicemente «inutili» secondo Munari, magari programmate per esplodere e così annullarsi, da sole… e proprio perciò capolavori di resistenza all’alienazione dell’industria come a quella del mercato.
Alle macchine Tinguely si era appassionato fin da bambino, quando andando per boschi alla periferia di Basilea si divertiva con delle ruote idrauliche, dotate di effetti sonori; e poi, qualche anno dopo, con l’invenzione dei primi mobiles, icone «saccheggiate» da Mirò, Malevitch, Kandinsky, che prendevano a ruotare o sobbalzare premendo un bottone collegato a un motorino.
Via via le macchine diventarono sempre più esibizioniste e complicate, a volte allungate-sussultanti su pedane di parecchi metri, o svettanti in altezza come rampe di lancio, o penzolanti dal soffitto come delle ninja – e insomma un fare-arte concepito come Gran Divertimento, non solo per l’artista Tinguely, ma per quel pubblico che contava ben più dell’appartenenze a questa o quella corrente o galleria.
RIFUGIO DI PAZZI
L’anno della svolta è il 1959, quando il suo lavoro prende (letteralmente) il volo, a bordo di un aereo che lancia su Dusseldorf 150mila volantini; e poi con le prime Meta-matics all’Hessenhuls di Anversa: delle proto-stampanti mediante le quali chiunque si portava a casa lo scarabocchio d’autore. Come nel caso della Meta-matic N 17 che alla Prima Biennale di Parigi sfornò 40mila disegni: un modo per dire che «lo spettatore fa parte dell’opera e non solo del pubblico».
Arte per scherzo, gioco, persino sport, come nella performance Cyclomatic, organizzata per «illustrare» una sua conferenza all’Ica di Londra: dove una macchina azionata da due ciclisti, generò un disegno così lungo (1500 metri!) che finì per invadere tutta la sala.
L’anno seguente segna la sua adesione al Manifesto del Nouveau Realisme che Pierre Restany, da qualche anno a Milano, aveva lanciato in quel «covo dell’avanguardia oltranzista (…) rifugio di pazzi, anarchici, frenetici dell’avanscoperta…» (parola di Dino Buzzati) che fu la Galleria Apollinaire – e chi meglio di Tinguely, che a Parigi si era fatto conoscere persino dai flics, per una sua parata di sferraglianti macchine, al Quartier Latin…
Ma il 1960 è soprattutto l’inizio del suo sodalizio artistico con Niki De Saint Phalle, figlia di facoltosi ebrei, ex modella, già sposata e madre di due figlie – e anima ferita per quel Segreto che anni dopo avrebbe raccontato nell’omonimo libro, il tentato stupro da parte del padre quando aveva dodici anni. Niki per caso ha visitato Tinguely nel suo atelier di Parigi qualche anno prima, si è innamorata di quell’ambaradam di congegni e bulloni, e dopo le iniziali scorribande alla caccia dei più improbabili ferrivecchi, rivela innanzitutto a sé stessa una vena creativa letteralmente esplosiva – e presto i due diventano leggendari come Bonnie & Clide dell’Arte (come li racconta un piccolo film rintracciabile su UTube). Un incontro/scontro tra maschile e femminile senza tregua nè sconti, una competizione creativa innanzitutto con sé stessi, che entrambi riconoscono faticosa e al tempo stesso vitale – una perfetta love-machine che non teme di ingripparsi, perché si sa che poi tutto funziona e ancor meglio di prima.
Quando nel 1961 lo Stedelijk Museum ospita la prima grande collettiva sull’arte cinetica (Bewogen Beweging) lei è l’unica donna, insieme a Rauschenberg, Arman, Spoerri, Jasper Johns e naturalmente Tinguely. Lui emerge su tutti. La mostra ha un successo tale che per il replay dell’anno successivo, la curatela viene affidata allo stesso Tinguely. Ed è Dylaby, successo irripetibile di pubblico per lo stesso motivo che induce la critica a definirla un baraccone: macchine giocose, pedane per il tiro al bersaglio, spazi trasformati in labirinti o sale da ballo per il twist again – l’arte alle masse, senza mediazioni.
UN «FUNERALE MECCANICO»
La relazione sentimentale con Niki de Saint Phalle finirà nel 1970, quando lui le chiede un figlio – e lei rifiuta. Di figli ne ha già due, e soprattutto, insieme a lui, ha scoperto l’esaltazione di una creatività ben oltre la maternità, in cui essere padre-madre-figli-compagni dell’happening che sarà subito dopo quello appena successo. Ma non sarà mai vero divorzio. Nel 1966 i due si sono misurati su un’opera in tutti i sensi gigantesca, che il Modern Museet di Stoccolma aveva commissionato a Niki e per la quale lei aveva avuto di nuovo bisogno di lui: una immensa sagoma di donna sdraiata, gambe aperte, interni concepiti come un percorso dentro le viscere dell’essere, oltre una fessura/porta in forma proprio di vagina. Titolo: Hon, ovvero Lei. Esperienza mistica e colletiva, per niente scandalosa, grandiosamente costruttiva che si rinnoverà nel ’77 con il Crocrodrome, per il Pompidou; e poi con il Golem di Gerusalemme, e per vari anni di seguito con il Giardino dei Tarocchi in Toscana, vicino a Capalbio… solo per citare qualcosa, perché contemporaneamente sia lui che lei perseguono tragitti in proprio.
Tinguely morirà nel 1991 per emorragia cerebrale. Il funerale verrà celebrato con tutte le sue macchine lì per lì funzionanti in corteo, al suono degli ottoni: uno spasso. Niki rimarrà nel dilemma: se rispettare il volere di lui («quando morirò la mia opera morirà con me»), o fare di testa sua… Per fortuna così è stato, e gran parte delle macchine godibili in questa rassegna allo Stedelijk, sono normalmente conservate al Museo che la città di Basilea ha dedicato all’opera di Tinguely, in forma di hangar e progetto di Mario Botta. Aspettando il film…

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